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"Il trucco è mettere in chiaro la differenza tra ciò che voi volete che accada e quello che sapete che accadrà."
"Il generale veramente eccellente è colui che cerca la vittoria prima della battaglia: non è bravo colui che cerca il combattimento prima della vittoria. Così un esercito vittorioso è tale prima ancora di combattere, mentre un esercito destinato alla sconfitta si batte senza speranza di vittoria."
Numero di messaggi : 956 Encomi : 11582 Data d'iscrizione : 04.07.14 Età : 77 Località : Milano
Titolo: Re: Musiche del nostro esercito Mar 11 Nov 2014 - 13:33
Dedicato a Woods
Te ne avevo appena parlato, ed ecco una notizia che ricorda anche ai più giovani "il parroco di Barbiana" e autore di "Lettera a una professoressa". Ecco,l'utilità di un forum pubblico ben funzionante
A Bra si intitola una scuola a don Lorenzo Milani
Cerimonia pubblica martedì 26 novembre alle 16:30 a Bra (CN)
Sarà intitolata a don Lorenzo Milani, il prete di Barbiana, la scuola primaria della Veneria di Bra. La sede che ospita anche la dirigenza del secondo circolo didattico cittadino è oggi dislocata tra lo storico edificio di via Europa e i nuovi locali in uso in viale Rimembranze, accorpando così le scuole primarie del quartiere dell’Oltreferrovia.
La cerimonia di intitolazione si svolgerà martedì 26 novembre 2013 alle ore 16:30 con un primo momento in viale Rimembranze, per poi trasferirsi in via Europa 15, alla presenza del sindaco Bruna Sibille, dell’assessore regionale all’istruzione Alberto Cirio e del dirigente del secondo circolo didattico, la dottoressa Silvana Manna. Con loro autorità locali, insegnanti, genitori e i giovani allievi dei due plessi scolastici, oltre al presidente del forum regionale per l’educazione e la scuola del PiemonteDomenico Chiesa.
La figura di don Milani sarà poi tratteggiata nel corso di un incontro pubblico organizzato, nella stessa serata di martedì 26 novembre, all’auditorium della Cassa di Risparmio di Bra di via Principi di Piemonte alle ore 20:45 dal titolo “Email ad una professoressa”, in un appuntamento organizzato dalla Cisl, dall’amministrazione civica e dall’Unità pastorale 50 Bra, Bandito, Sanfré. Moderati dal giornalista Valter Manzone, interverranno Agostino Burberi, primo allievo della scuola di Barbiana, Tina Pessina della fondazione don Milani, oggi preside del liceo Berchet di Milano, e Rosa Mongillo della segreteria nazionale di Cisl scuola.
Don Lorenzo Milani, nato a Firenze nel 1923, nel dicembre del 1954 venne mandato a Barbiana, minuscola e sperduta frazione di montagna nel comune di Vicchio, in Mugello, dove iniziò il primo tentativo di scuola a tempo pieno, espressamente rivolto alle classi popolari, dove, tra le altre cose, sperimentò il metodo della scrittura collettiva. La sua scuola era alloggiata in un paio di stanze della canonica annessa alla piccola chiesa, con la regola principale che, per tutto l’anno, chi sapeva di più aiutava e sosteneva chi sapeva di meno. Opera fondamentale della scuola di Barbiana fu “Lettera a una professoressa”, in cui i ragazzi della scuola (insieme a don Milani) denunciarono il sistema scolastico e il metodo didattico che favoriva l'istruzione delle classi più ricche (i cosiddetti "Pierini"), ignorando la piaga dell'analfabetismo che interessava gran parte del paese.
c.s.[/b]
woods77 Maresciallo
Numero di messaggi : 1189 Encomi : 14178 Data d'iscrizione : 27.08.14 Età : 47 Località : Benevento
Titolo: Re: Musiche del nostro esercito Mar 11 Nov 2014 - 17:30
francesco1017 ha scritto:
Dedicato a Woods
Te ne avevo appena parlato, ed ecco una notizia che ricorda anche ai più giovani "il parroco di Barbiana" e autore di "Lettera a una professoressa". Ecco,l'utilità di un forum pubblico ben funzionante
A Bra si intitola una scuola a don Lorenzo Milani
Cerimonia pubblica martedì 26 novembre alle 16:30 a Bra (CN)
Sarà intitolata a don Lorenzo Milani, il prete di Barbiana, la scuola primaria della Veneria di Bra. La sede che ospita anche la dirigenza del secondo circolo didattico cittadino è oggi dislocata tra lo storico edificio di via Europa e i nuovi locali in uso in viale Rimembranze, accorpando così le scuole primarie del quartiere dell’Oltreferrovia.
La cerimonia di intitolazione si svolgerà martedì 26 novembre 2013 alle ore 16:30 con un primo momento in viale Rimembranze, per poi trasferirsi in via Europa 15, alla presenza del sindaco Bruna Sibille, dell’assessore regionale all’istruzione Alberto Cirio e del dirigente del secondo circolo didattico, la dottoressa Silvana Manna. Con loro autorità locali, insegnanti, genitori e i giovani allievi dei due plessi scolastici, oltre al presidente del forum regionale per l’educazione e la scuola del PiemonteDomenico Chiesa.
La figura di don Milani sarà poi tratteggiata nel corso di un incontro pubblico organizzato, nella stessa serata di martedì 26 novembre, all’auditorium della Cassa di Risparmio di Bra di via Principi di Piemonte alle ore 20:45 dal titolo “Email ad una professoressa”, in un appuntamento organizzato dalla Cisl, dall’amministrazione civica e dall’Unità pastorale 50 Bra, Bandito, Sanfré. Moderati dal giornalista Valter Manzone, interverranno Agostino Burberi, primo allievo della scuola di Barbiana, Tina Pessina della fondazione don Milani, oggi preside del liceo Berchet di Milano, e Rosa Mongillo della segreteria nazionale di Cisl scuola.
Don Lorenzo Milani, nato a Firenze nel 1923, nel dicembre del 1954 venne mandato a Barbiana, minuscola e sperduta frazione di montagna nel comune di Vicchio, in Mugello, dove iniziò il primo tentativo di scuola a tempo pieno, espressamente rivolto alle classi popolari, dove, tra le altre cose, sperimentò il metodo della scrittura collettiva. La sua scuola era alloggiata in un paio di stanze della canonica annessa alla piccola chiesa, con la regola principale che, per tutto l’anno, chi sapeva di più aiutava e sosteneva chi sapeva di meno. Opera fondamentale della scuola di Barbiana fu “Lettera a una professoressa”, in cui i ragazzi della scuola (insieme a don Milani) denunciarono il sistema scolastico e il metodo didattico che favoriva l'istruzione delle classi più ricche (i cosiddetti "Pierini"), ignorando la piaga dell'analfabetismo che interessava gran parte del paese.
c.s.[/b]
Valori che condivido pienamente Purtroppo siamo in pochi e spero di sbaliarmi, a rinunciare se stessi per gli altri.... vorrei solo far presente che Io Oggi Vivo In Un Paese Dove Chiamo ONOREVOLE Colui Che Di ONORE Non Ne Sà Niente, anzi se lo avesse avuto non avrebbe mai ricoperto un ruolo di tale importanza. P.s. Tante Volte ci dovesse essere qualche Onorevole tra di noi sappia che io alle prossime elezioni lo voterò
woods77 Maresciallo
Numero di messaggi : 1189 Encomi : 14178 Data d'iscrizione : 27.08.14 Età : 47 Località : Benevento
Titolo: Re: Musiche del nostro esercito Mar 11 Nov 2014 - 17:37
Giusto perchè mi sono innervosito
ing.korg Sergente maggiore capo
Numero di messaggi : 133 Encomi : 2314 Data d'iscrizione : 18.04.14
Titolo: Re: Musiche del nostro esercito Mar 11 Nov 2014 - 23:38
woods77 ha scritto:
Ciccio sei grande sono daccordo con te ma ognuno sfoggia la propria cultura..... io ne ho veramente poca poca ma quando posso cerco di seguirvi nelle vostre discussioni dove purtroppo non posso partecipare ma mi interessano ASSAI. Quindi grazie a VOI cresco come DIVERSAMENTE ACCULTURATO
In sociologia
Influenzata dagli studi dell'antropologia culturale, la sociologia si dedica con particolare attenzione allo studio della cultura. Secondo la concezione di Tylor (antropologo inglese - 1871), si definisce cultura quell’insieme di segni, artefatti e modi di vita che gli individui condividono. In senso antropologico, cultura è tutto ciò che possiede un determinato significato (simboli, linguaggio), e il termine è riferito a un gruppo specifico: la cultura ha quindi dei confini riconoscibili. A partire dagli anni 60/70 del 900, il concetto di cultura ha iniziato ad avere un ruolo centrale e non più marginale. La struttura produttiva e occupazionale (società dei servizi) cambia e si sviluppano i vari settori. La cultura dunque porta cambiamento, che a sua volta valorizza il marketing, la qualità del prodotto, le strategie economiche: tutti elementi che necessitano la conoscenza. Ogni cultura è relativa alla società o al gruppo a cui appartiene. Essa può essere per esempio la vita familiare, la religione, gli abbigliamenti, le consuetudini ecc, ed è limitata ad un determinato arco di tempo e luogo. Uno dei più grossi errori della storia è stato quello di gerarchizzare la cultura, un vero e proprio atto di egoismo che ha comportato la credenza e il sostenimento di culture “superiori” ad altre, generando il blocco culturale delle nazioni e quindi conflitti internazionali. Oggi invece siamo nel pieno della globalizzazione: si può dunque parlare di Sincretismo, la fusione/conciliazione di più credenze.
Personalmente sono convinto che l'importante sia l'essere..........curiosi......avere sete.......di conoscere.......come il bambino che smonta il giocattolo per capire come è fatto....... E.........non smettere......... mai........finché avrai vita.
La cultura viene poi ..........da se........maaaaaa......sarà solo.........un illusione......credere di averla raggiunta.
francesco1017 Maresciallo capo
Numero di messaggi : 956 Encomi : 11582 Data d'iscrizione : 04.07.14 Età : 77 Località : Milano
Titolo: Re: Musiche del nostro esercito Mer 12 Nov 2014 - 8:23
ing.korg ha scritto:
woods77 ha scritto:
Ciccio sei grande sono daccordo con te ma ognuno sfoggia la propria cultura..... io ne ho veramente poca poca ma quando posso cerco di seguirvi nelle vostre discussioni dove purtroppo non posso partecipare ma mi interessano ASSAI. Quindi grazie a VOI cresco come DIVERSAMENTE ACCULTURATO
In sociologia
Influenzata dagli studi dell'antropologia culturale, la sociologia si dedica con particolare attenzione allo studio della cultura. Secondo la concezione di Tylor (antropologo inglese - 1871), si definisce cultura quell’insieme di segni, artefatti e modi di vita che gli individui condividono. In senso antropologico, cultura è tutto ciò che possiede un determinato significato (simboli, linguaggio), e il termine è riferito a un gruppo specifico: la cultura ha quindi dei confini riconoscibili. A partire dagli anni 60/70 del 900, il concetto di cultura ha iniziato ad avere un ruolo centrale e non più marginale. La struttura produttiva e occupazionale (società dei servizi) cambia e si sviluppano i vari settori. La cultura dunque porta cambiamento, che a sua volta valorizza il marketing, la qualità del prodotto, le strategie economiche: tutti elementi che necessitano la conoscenza. Ogni cultura è relativa alla società o al gruppo a cui appartiene. Essa può essere per esempio la vita familiare, la religione, gli abbigliamenti, le consuetudini ecc, ed è limitata ad un determinato arco di tempo e luogo. Uno dei più grossi errori della storia è stato quello di gerarchizzare la cultura, un vero e proprio atto di egoismo che ha comportato la credenza e il sostenimento di culture “superiori” ad altre, generando il blocco culturale delle nazioni e quindi conflitti internazionali. Oggi invece siamo nel pieno della globalizzazione: si può dunque parlare di Sincretismo, la fusione/conciliazione di più credenze.
Personalmente sono convinto che l'importante sia l'essere..........curiosi......avere sete.......di conoscere.......come il bambino che smonta il giocattolo per capire come è fatto....... E.........non smettere......... mai........finché avrai vita.
La cultura viene poi......da se........maaaaaa......sarà solo.........un illusione......credere di averla raggiunta.
Hai detto,tutto, caro Ingegnere
francesco1017 Maresciallo capo
Numero di messaggi : 956 Encomi : 11582 Data d'iscrizione : 04.07.14 Età : 77 Località : Milano
Titolo: Re: Musiche del nostro esercito Mer 12 Nov 2014 - 8:31
woods77 ha scritto:
Giusto perchè mi sono innervosito
Vedi caro woods, quanto profondo e' questo contributo sonoro.
Ci hai fatto riflettere, mi hai fatto pensare a tante cose..... Hai dato un contributo "culturale", uso questo aggettivo per comodità.
Abbi fiducia nello spirito di "intelligenza collettiva" che aleggia su questo blog.
Il tasso di intelligenza aumenta con contributi come il tuo.... non "censurarti".
La riflessione indotta dal post di woods
Io non mi sento italiano di Francesco Buffoli , in Storia della musica.it
Il Signor G ci ha lasciato la mattina di capodanno di quasi 9 anni fa, ma è più attuale di qualsiasi altro prodotto made in italy mi sia capitato a tiro in questo lungo periodo. Anche con il suo manifesto-testamento, “Io non mi sento italiano”, che oggi più di ieri suona freschissimo, trascinante, commovente.
Facciamo un passo indietro: Giorgio Gaber è uno fra i grandi autori della canzone tricolore, uno fra i pochi che hanno saputo aprirle strade nuove, inventarsi una poetica assolutamente personale; è il pioniere e l'interprete più sublime del teatro-canzone, l'intellettuale anti-conformista e anarchico per eccellenza.
Impossibile inquadrarlo, definirlo, catalogarlo: certamente è figlio della contestazione e della swingin' Milan degli anni '60 (di cui rappresenta uno fra i volti di primo piano, accanto agli amici Celentano e Jannacci), certamente è un prodotto di quel particolare humus culturale che ha dato origine alla stagione più felice della nostra canzone d'autore.
Ma rimane fondamentalmente un solitario, uno spirito libero, un innovatore cocciutamente incamminato lungo sentieri personali che se ne frega completamente di ogni tipo di moda (sia questa la musica politicizzata che, a volte, nel corso degli anni '70, assume i contorni di una sgradevole forzatura; oppure la melodia preconfezionata che infesta i vari Sanremo con i suoi sentimentalismi da quattro soldi; o ancora la musica da supermercato proponataci più recentemente da talent show e simili).
Gaber è il poeta della semplicità: il suo linguaggio è diretto, purissimo, limpido “come un cielo d'estate sempre blu”. Ma non assume mai i contorni della predica né si crogiola fra banalità assortite che parlano solo ad un pubblico di convertiti (come ahimè fa da tempo buona parte della nostra scena indie, incapace dal mio punto di vista di produrre un autore veramente significativo, un “poeta” che abbia da offrire una visione propria - giusto Emidio Clementi rappresenta un'importante eccezione).
Non è aulico né ricercato come le rime erudite dell'amico Francesco Guccini, né il suo lirismo assume i contorni dell'invettiva avvelenata; non è intriso del surrealismo amaro e inconoclasta di Rino Gaetano.
Neppure costruisce una solennità quasi storico-religiosa, arricchita dalle metafore celestiali che innvervano la produzione di Fabrizio De André: eppure Gaber è profondo e toccante come questi autori.
Come gli altri grandi, è capace di un umorismo fulminante ma sempre elegante e leggero; e riesce a muovere corde profonde con una semplice intuizione.
Si avverte fra le pieghe della sua arte anche l'importanza degli chansonnier d'oltralpe, da Leo Ferrè a George Brassens, e soprattutto, ovviamente, il consumato attore teatrale Jacques Brel (tanto da modellare anche la gestualità su quella del genio belga), perché Gaber, così come il sommo Faber, è anche il cantore del popolo degli umili, degli emarginati e dei disadattati.
Li tratta sempre senza condiscendenza, ma con il rispetto dovuto ad ogni essere umano e con un'ironia leggiadra e dolcissima: e così i personaggi che ravvivano la Milano popolare delle periferie diventano i protagonisti di storie dal respiro universale, diventano affreschi degni dei capolavori di un Caravaggio.
Riccardo che ama il biliardo ed il Sig. Cerutti Cino, che gli amici al Giambellino chiamavan “Drago”, sono destinati a segnare la memoria collettiva per sempre. Sono fotografie ingiallite eppure sempre attuali di un mondo che, senza il Sig. G (ed alcuni colleghi) era destinato a rimanere per sempre lontano dagli altari delle cronache, a sguazzare in una subalternità senza rimedio, a perdersi fra strade e palazzoni di second'ordine senza che nessuno ne evidenziasse la straordinaria carica umana.
“Io non mi sento italiano”, pubblicato postumo nel 2003, racchiude tutto ciò, è il Signor G in tutte le sue sfaccettature ed in tutto il suo lirisimo immaginifico. "Io non mi sento italiano" è il disco di un nobile eversore.
Ogni pezzo meriterebbe un'approfondita analisi che qui, anche solo per motivi di spazio, risulta difficile collocare.
Ma lasciatemi celebrare alcuni momenti di una bellezza straziante, le vertigini che parole assolutamente comuni possono provocare se incastonate nei testi del Sig. G.
“Il tutto è falso” è un'amara riflessione sulle contraddizioni senza speranza della contemporaneità, e si divincola fra la paura del mondo che verrà lasciato ai nostri figli, l'orrore per una tecnologia totalizzante che ci sta privando del respiro, e guarda poi a problematiche universali.
Alle storture del mercato, alle guerre ed alle sofferenze più atroci che il nostro fascismo edonista ci costringe a vivere come fossero un romanzo giallo, calpestando anche quel briciolo di umanità che ancora ci resta (tema ripreso nella meravigliosa “C'è un'aria”, sprezzante e sarcastico ritratto del mondo dei nostri media: “E c’è un gusto morboso del mestiere d’informare, uno sfoggio di pensieri senza mai l’ombra di un dolore e le miserie umane raccontate come film gialli, sono tragedie oscene che soddisfano la fame di questi avidi sciacalli”).
“Non insegnate ai bambini” è subilme ode all'infanzia degna di un Federico Garcìa Lorca, e prende a sassate ogni forma di prematuro abbruttimento, dettato da una morale stanca o dalla manìa di indossare uniformi ed imbracciare armi contro il nemico di turno, che avvelena il nostro clima culturale sin dalla più tenera età.
“Giro giro tondo, cambia il mondo” è la definitiva celebrazione del potere liberatorio ed eversivo dell'età “mitica” per eccellenza, e fa scorrere pesanti brividi lungo la schiena ogni volta.
Si prosegue sulle corde straziate de “Il Dilemma”, sofferto ritratto dei dubbi che possono corrodere le storie d'amore e concludersi nel modo più tragico. Ritratto di ampio respiro e privo di stoccate velenose: qui Gaber è commosso e delicatissimo, e non usa mai la mano pesante.
Da ascoltare sono anche la divertita “Il Corrotto”, che è sia sculacciata a certi facili moralismi che tetra raffigurazione di un mondo scarnificato ove tutto è merce, ed ovviamente anche il sesso; così come la filosofica “I mostri che abbiamo dentro”, riflessione austera sull'eterno dualismo dell'animo umano ricca di spunti che potrebbero valorizzare, quasi da soli, la carriera di tanti presunti cantautori di oggi e di ieri.
Ho volutamente lasciato un po' di spazio per la celebre title-track, che rappresenta la definitiva dichiarazione d'indipendenza senza limiti e compromessi del Sig. G. (“Mi scusi Presidente, se arrivo all'impudenza, di dire che non sento alcuna appartenenza”), inno alla libertà ed al valore della vita in quanto tale (così come “Se ci fosse un uomo”), senza stecchati, barriere, inni e bandiere: semplicemente, l'uomo al centro di tutto.
Non è un inno anti-italiano (anche perché oggi una simile affermazione evoca subito sgradevoli camicie verdi): anzi, prende accoratamente le difese della cultura e della storia del belpaese, quando serve per fronteggiare luoghi comuni beceri e razzismo invertito (“Mi scusi Presidente ma forse noi italiani per gli altri siamo solospaghetti e mandolini. Allora qui mi incazzo son fiero e me ne vanto, gli sbatto sulla faccia cos'è il Rinascimento”). Ma sa leggere fra le righe la retorica scialba e vuota che circonda le celebrazioni dell'inno e del nazionalismo più insulso.
La musica è ovunque un elegante, discreto tappeto di archi (e sporadicamente fiati) che evidenzia e valorizza le parole di Giorgio. Giusto la title-track è più movimenta, una marcia spassosa e ricca di colori e sfumature, piccola gemma di ritmi ed incastri ingegnosi.
Gli arrangiamenti sono in ogni caso puntuali, misurati, puliti: e la forza del disco, così come in ogni opera d'autore che si rispetti, sta proprio nella fusione equilibrata fra la sua intensità lirica ed il paesaggio ove parole e concetti prendono forma.
In pochi hanno saputo coniugare un ibrido paragonabile a quello del Sig. G: ed allora che il nostro “anarchico” possa inventare ed emoziare anche da lassù, che le sue parole siano una boccata d'aria fresca per tutti quelli che stanno riposando accanto a lui.
woods77 Maresciallo
Numero di messaggi : 1189 Encomi : 14178 Data d'iscrizione : 27.08.14 Età : 47 Località : Benevento
Titolo: Re: Musiche del nostro esercito Mer 12 Nov 2014 - 12:46
francesco1017 ha scritto:
woods77 ha scritto:
Giusto perchè mi sono innervosito
Vedi caro woods, quanto profondo e' questo contributo sonoro.
Ci hai fatto riflettere, mi hai fatto pensare a tante cose..... Hai dato un contributo "culturale", uso questo aggettivo per comodità.
Abbi fiducia nello spirito di "intelligenza collettiva" che aleggia su questo blog.
Il tasso di intelligenza aumenta con contributi come il tuo.... non "censurarti".
La riflessione indotta dal post di woods
Io non mi sento italiano di Francesco Buffoli , in Storia della musica.it
Il Signor G ci ha lasciato la mattina di capodanno di quasi 9 anni fa, ma è più attuale di qualsiasi altro prodotto made in italy mi sia capitato a tiro in questo lungo periodo. Anche con il suo manifesto-testamento, “Io non mi sento italiano”, che oggi più di ieri suona freschissimo, trascinante, commovente.
Facciamo un passo indietro: Giorgio Gaber è uno fra i grandi autori della canzone tricolore, uno fra i pochi che hanno saputo aprirle strade nuove, inventarsi una poetica assolutamente personale; è il pioniere e l'interprete più sublime del teatro-canzone, l'intellettuale anti-conformista e anarchico per eccellenza.
Impossibile inquadrarlo, definirlo, catalogarlo: certamente è figlio della contestazione e della swingin' Milan degli anni '60 (di cui rappresenta uno fra i volti di primo piano, accanto agli amici Celentano e Jannacci), certamente è un prodotto di quel particolare humus culturale che ha dato origine alla stagione più felice della nostra canzone d'autore.
Ma rimane fondamentalmente un solitario, uno spirito libero, un innovatore cocciutamente incamminato lungo sentieri personali che se ne frega completamente di ogni tipo di moda (sia questa la musica politicizzata che, a volte, nel corso degli anni '70, assume i contorni di una sgradevole forzatura; oppure la melodia preconfezionata che infesta i vari Sanremo con i suoi sentimentalismi da quattro soldi; o ancora la musica da supermercato proponataci più recentemente da talent show e simili).
Gaber è il poeta della semplicità: il suo linguaggio è diretto, purissimo, limpido “come un cielo d'estate sempre blu”. Ma non assume mai i contorni della predica né si crogiola fra banalità assortite che parlano solo ad un pubblico di convertiti (come ahimè fa da tempo buona parte della nostra scena indie, incapace dal mio punto di vista di produrre un autore veramente significativo, un “poeta” che abbia da offrire una visione propria - giusto Emidio Clementi rappresenta un'importante eccezione).
Non è aulico né ricercato come le rime erudite dell'amico Francesco Guccini, né il suo lirismo assume i contorni dell'invettiva avvelenata; non è intriso del surrealismo amaro e inconoclasta di Rino Gaetano.
Neppure costruisce una solennità quasi storico-religiosa, arricchita dalle metafore celestiali che innvervano la produzione di Fabrizio De André: eppure Gaber è profondo e toccante come questi autori.
Come gli altri grandi, è capace di un umorismo fulminante ma sempre elegante e leggero; e riesce a muovere corde profonde con una semplice intuizione.
Si avverte fra le pieghe della sua arte anche l'importanza degli chansonnier d'oltralpe, da Leo Ferrè a George Brassens, e soprattutto, ovviamente, il consumato attore teatrale Jacques Brel (tanto da modellare anche la gestualità su quella del genio belga), perché Gaber, così come il sommo Faber, è anche il cantore del popolo degli umili, degli emarginati e dei disadattati.
Li tratta sempre senza condiscendenza, ma con il rispetto dovuto ad ogni essere umano e con un'ironia leggiadra e dolcissima: e così i personaggi che ravvivano la Milano popolare delle periferie diventano i protagonisti di storie dal respiro universale, diventano affreschi degni dei capolavori di un Caravaggio.
Riccardo che ama il biliardo ed il Sig. Cerutti Cino, che gli amici al Giambellino chiamavan “Drago”, sono destinati a segnare la memoria collettiva per sempre. Sono fotografie ingiallite eppure sempre attuali di un mondo che, senza il Sig. G (ed alcuni colleghi) era destinato a rimanere per sempre lontano dagli altari delle cronache, a sguazzare in una subalternità senza rimedio, a perdersi fra strade e palazzoni di second'ordine senza che nessuno ne evidenziasse la straordinaria carica umana.
“Io non mi sento italiano”, pubblicato postumo nel 2003, racchiude tutto ciò, è il Signor G in tutte le sue sfaccettature ed in tutto il suo lirisimo immaginifico. "Io non mi sento italiano" è il disco di un nobile eversore.
Ogni pezzo meriterebbe un'approfondita analisi che qui, anche solo per motivi di spazio, risulta difficile collocare.
Ma lasciatemi celebrare alcuni momenti di una bellezza straziante, le vertigini che parole assolutamente comuni possono provocare se incastonate nei testi del Sig. G.
“Il tutto è falso” è un'amara riflessione sulle contraddizioni senza speranza della contemporaneità, e si divincola fra la paura del mondo che verrà lasciato ai nostri figli, l'orrore per una tecnologia totalizzante che ci sta privando del respiro, e guarda poi a problematiche universali.
Alle storture del mercato, alle guerre ed alle sofferenze più atroci che il nostro fascismo edonista ci costringe a vivere come fossero un romanzo giallo, calpestando anche quel briciolo di umanità che ancora ci resta (tema ripreso nella meravigliosa “C'è un'aria”, sprezzante e sarcastico ritratto del mondo dei nostri media: “E c’è un gusto morboso del mestiere d’informare, uno sfoggio di pensieri senza mai l’ombra di un dolore e le miserie umane raccontate come film gialli, sono tragedie oscene che soddisfano la fame di questi avidi sciacalli”).
“Non insegnate ai bambini” è subilme ode all'infanzia degna di un Federico Garcìa Lorca, e prende a sassate ogni forma di prematuro abbruttimento, dettato da una morale stanca o dalla manìa di indossare uniformi ed imbracciare armi contro il nemico di turno, che avvelena il nostro clima culturale sin dalla più tenera età.
“Giro giro tondo, cambia il mondo” è la definitiva celebrazione del potere liberatorio ed eversivo dell'età “mitica” per eccellenza, e fa scorrere pesanti brividi lungo la schiena ogni volta.
Si prosegue sulle corde straziate de “Il Dilemma”, sofferto ritratto dei dubbi che possono corrodere le storie d'amore e concludersi nel modo più tragico. Ritratto di ampio respiro e privo di stoccate velenose: qui Gaber è commosso e delicatissimo, e non usa mai la mano pesante.
Da ascoltare sono anche la divertita “Il Corrotto”, che è sia sculacciata a certi facili moralismi che tetra raffigurazione di un mondo scarnificato ove tutto è merce, ed ovviamente anche il sesso; così come la filosofica “I mostri che abbiamo dentro”, riflessione austera sull'eterno dualismo dell'animo umano ricca di spunti che potrebbero valorizzare, quasi da soli, la carriera di tanti presunti cantautori di oggi e di ieri.
Ho volutamente lasciato un po' di spazio per la celebre title-track, che rappresenta la definitiva dichiarazione d'indipendenza senza limiti e compromessi del Sig. G. (“Mi scusi Presidente, se arrivo all'impudenza, di dire che non sento alcuna appartenenza”), inno alla libertà ed al valore della vita in quanto tale (così come “Se ci fosse un uomo”), senza stecchati, barriere, inni e bandiere: semplicemente, l'uomo al centro di tutto.
Non è un inno anti-italiano (anche perché oggi una simile affermazione evoca subito sgradevoli camicie verdi): anzi, prende accoratamente le difese della cultura e della storia del belpaese, quando serve per fronteggiare luoghi comuni beceri e razzismo invertito (“Mi scusi Presidente ma forse noi italiani per gli altri siamo solospaghetti e mandolini. Allora qui mi incazzo son fiero e me ne vanto, gli sbatto sulla faccia cos'è il Rinascimento”). Ma sa leggere fra le righe la retorica scialba e vuota che circonda le celebrazioni dell'inno e del nazionalismo più insulso.
La musica è ovunque un elegante, discreto tappeto di archi (e sporadicamente fiati) che evidenzia e valorizza le parole di Giorgio. Giusto la title-track è più movimenta, una marcia spassosa e ricca di colori e sfumature, piccola gemma di ritmi ed incastri ingegnosi.
Gli arrangiamenti sono in ogni caso puntuali, misurati, puliti: e la forza del disco, così come in ogni opera d'autore che si rispetti, sta proprio nella fusione equilibrata fra la sua intensità lirica ed il paesaggio ove parole e concetti prendono forma.
In pochi hanno saputo coniugare un ibrido paragonabile a quello del Sig. G: ed allora che il nostro “anarchico” possa inventare ed emoziare anche da lassù, che le sue parole siano una boccata d'aria fresca per tutti quelli che stanno riposando accanto a lui.
Vedi quello che intendevo io? Sono un diversamente acculturato, quello che hai scritto nella mia testa ha trovato una sintonia incredibile, come se fossero pensieri miei, ma non sarei mai riuscito ad esprimere tutto ciò. Grazie per i tuoi contributi
francesco1017 Maresciallo capo
Numero di messaggi : 956 Encomi : 11582 Data d'iscrizione : 04.07.14 Età : 77 Località : Milano
Titolo: Re: Musiche del nostro esercito Mer 12 Nov 2014 - 12:55
woods77 ha scritto:
francesco1017 ha scritto:
woods77 ha scritto:
Giusto perchè mi sono innervosito
Vedi caro woods, quanto profondo e' questo contributo sonoro.
Ci hai fatto riflettere, mi hai fatto pensare a tante cose..... Hai dato un contributo "culturale", uso questo aggettivo per comodità.
Abbi fiducia nello spirito di "intelligenza collettiva" che aleggia su questo blog.
Il tasso di intelligenza aumenta con contributi come il tuo.... non "censurarti".
La riflessione indotta dal post di woods
Io non mi sento italiano di Francesco Buffoli , in Storia della musica.it
Il Signor G ci ha lasciato la mattina di capodanno di quasi 9 anni fa, ma è più attuale di qualsiasi altro prodotto made in italy mi sia capitato a tiro in questo lungo periodo. Anche con il suo manifesto-testamento, “Io non mi sento italiano”, che oggi più di ieri suona freschissimo, trascinante, commovente.
Facciamo un passo indietro: Giorgio Gaber è uno fra i grandi autori della canzone tricolore, uno fra i pochi che hanno saputo aprirle strade nuove, inventarsi una poetica assolutamente personale; è il pioniere e l'interprete più sublime del teatro-canzone, l'intellettuale anti-conformista e anarchico per eccellenza.
Impossibile inquadrarlo, definirlo, catalogarlo: certamente è figlio della contestazione e della swingin' Milan degli anni '60 (di cui rappresenta uno fra i volti di primo piano, accanto agli amici Celentano e Jannacci), certamente è un prodotto di quel particolare humus culturale che ha dato origine alla stagione più felice della nostra canzone d'autore.
Ma rimane fondamentalmente un solitario, uno spirito libero, un innovatore cocciutamente incamminato lungo sentieri personali che se ne frega completamente di ogni tipo di moda (sia questa la musica politicizzata che, a volte, nel corso degli anni '70, assume i contorni di una sgradevole forzatura; oppure la melodia preconfezionata che infesta i vari Sanremo con i suoi sentimentalismi da quattro soldi; o ancora la musica da supermercato proponataci più recentemente da talent show e simili).
Gaber è il poeta della semplicità: il suo linguaggio è diretto, purissimo, limpido “come un cielo d'estate sempre blu”. Ma non assume mai i contorni della predica né si crogiola fra banalità assortite che parlano solo ad un pubblico di convertiti (come ahimè fa da tempo buona parte della nostra scena indie, incapace dal mio punto di vista di produrre un autore veramente significativo, un “poeta” che abbia da offrire una visione propria - giusto Emidio Clementi rappresenta un'importante eccezione).
Non è aulico né ricercato come le rime erudite dell'amico Francesco Guccini, né il suo lirismo assume i contorni dell'invettiva avvelenata; non è intriso del surrealismo amaro e inconoclasta di Rino Gaetano.
Neppure costruisce una solennità quasi storico-religiosa, arricchita dalle metafore celestiali che innvervano la produzione di Fabrizio De André: eppure Gaber è profondo e toccante come questi autori.
Come gli altri grandi, è capace di un umorismo fulminante ma sempre elegante e leggero; e riesce a muovere corde profonde con una semplice intuizione.
Si avverte fra le pieghe della sua arte anche l'importanza degli chansonnier d'oltralpe, da Leo Ferrè a George Brassens, e soprattutto, ovviamente, il consumato attore teatrale Jacques Brel (tanto da modellare anche la gestualità su quella del genio belga), perché Gaber, così come il sommo Faber, è anche il cantore del popolo degli umili, degli emarginati e dei disadattati.
Li tratta sempre senza condiscendenza, ma con il rispetto dovuto ad ogni essere umano e con un'ironia leggiadra e dolcissima: e così i personaggi che ravvivano la Milano popolare delle periferie diventano i protagonisti di storie dal respiro universale, diventano affreschi degni dei capolavori di un Caravaggio.
Riccardo che ama il biliardo ed il Sig. Cerutti Cino, che gli amici al Giambellino chiamavan “Drago”, sono destinati a segnare la memoria collettiva per sempre. Sono fotografie ingiallite eppure sempre attuali di un mondo che, senza il Sig. G (ed alcuni colleghi) era destinato a rimanere per sempre lontano dagli altari delle cronache, a sguazzare in una subalternità senza rimedio, a perdersi fra strade e palazzoni di second'ordine senza che nessuno ne evidenziasse la straordinaria carica umana.
“Io non mi sento italiano”, pubblicato postumo nel 2003, racchiude tutto ciò, è il Signor G in tutte le sue sfaccettature ed in tutto il suo lirisimo immaginifico. "Io non mi sento italiano" è il disco di un nobile eversore.
Ogni pezzo meriterebbe un'approfondita analisi che qui, anche solo per motivi di spazio, risulta difficile collocare.
Ma lasciatemi celebrare alcuni momenti di una bellezza straziante, le vertigini che parole assolutamente comuni possono provocare se incastonate nei testi del Sig. G.
“Il tutto è falso” è un'amara riflessione sulle contraddizioni senza speranza della contemporaneità, e si divincola fra la paura del mondo che verrà lasciato ai nostri figli, l'orrore per una tecnologia totalizzante che ci sta privando del respiro, e guarda poi a problematiche universali.
Alle storture del mercato, alle guerre ed alle sofferenze più atroci che il nostro fascismo edonista ci costringe a vivere come fossero un romanzo giallo, calpestando anche quel briciolo di umanità che ancora ci resta (tema ripreso nella meravigliosa “C'è un'aria”, sprezzante e sarcastico ritratto del mondo dei nostri media: “E c’è un gusto morboso del mestiere d’informare, uno sfoggio di pensieri senza mai l’ombra di un dolore e le miserie umane raccontate come film gialli, sono tragedie oscene che soddisfano la fame di questi avidi sciacalli”).
“Non insegnate ai bambini” è subilme ode all'infanzia degna di un Federico Garcìa Lorca, e prende a sassate ogni forma di prematuro abbruttimento, dettato da una morale stanca o dalla manìa di indossare uniformi ed imbracciare armi contro il nemico di turno, che avvelena il nostro clima culturale sin dalla più tenera età.
“Giro giro tondo, cambia il mondo” è la definitiva celebrazione del potere liberatorio ed eversivo dell'età “mitica” per eccellenza, e fa scorrere pesanti brividi lungo la schiena ogni volta.
Si prosegue sulle corde straziate de “Il Dilemma”, sofferto ritratto dei dubbi che possono corrodere le storie d'amore e concludersi nel modo più tragico. Ritratto di ampio respiro e privo di stoccate velenose: qui Gaber è commosso e delicatissimo, e non usa mai la mano pesante.
Da ascoltare sono anche la divertita “Il Corrotto”, che è sia sculacciata a certi facili moralismi che tetra raffigurazione di un mondo scarnificato ove tutto è merce, ed ovviamente anche il sesso; così come la filosofica “I mostri che abbiamo dentro”, riflessione austera sull'eterno dualismo dell'animo umano ricca di spunti che potrebbero valorizzare, quasi da soli, la carriera di tanti presunti cantautori di oggi e di ieri.
Ho volutamente lasciato un po' di spazio per la celebre title-track, che rappresenta la definitiva dichiarazione d'indipendenza senza limiti e compromessi del Sig. G. (“Mi scusi Presidente, se arrivo all'impudenza, di dire che non sento alcuna appartenenza”), inno alla libertà ed al valore della vita in quanto tale (così come “Se ci fosse un uomo”), senza stecchati, barriere, inni e bandiere: semplicemente, l'uomo al centro di tutto.
Non è un inno anti-italiano (anche perché oggi una simile affermazione evoca subito sgradevoli camicie verdi): anzi, prende accoratamente le difese della cultura e della storia del belpaese, quando serve per fronteggiare luoghi comuni beceri e razzismo invertito (“Mi scusi Presidente ma forse noi italiani per gli altri siamo solospaghetti e mandolini. Allora qui mi incazzo son fiero e me ne vanto, gli sbatto sulla faccia cos'è il Rinascimento”). Ma sa leggere fra le righe la retorica scialba e vuota che circonda le celebrazioni dell'inno e del nazionalismo più insulso.
La musica è ovunque un elegante, discreto tappeto di archi (e sporadicamente fiati) che evidenzia e valorizza le parole di Giorgio. Giusto la title-track è più movimenta, una marcia spassosa e ricca di colori e sfumature, piccola gemma di ritmi ed incastri ingegnosi.
Gli arrangiamenti sono in ogni caso puntuali, misurati, puliti: e la forza del disco, così come in ogni opera d'autore che si rispetti, sta proprio nella fusione equilibrata fra la sua intensità lirica ed il paesaggio ove parole e concetti prendono forma.
In pochi hanno saputo coniugare un ibrido paragonabile a quello del Sig. G: ed allora che il nostro “anarchico” possa inventare ed emoziare anche da lassù, che le sue parole siano una boccata d'aria fresca per tutti quelli che stanno riposando accanto a lui.
Vedi quello che intendevo io? Sono un diversamente acculturato, quello che hai scritto nella mia testa ha trovato una sintonia incredibile, come se fossero pensieri miei, ma non sarei mai riuscito ad esprimere tutto ciò. Grazie per i tuoi contributi
Grazie a te..... dopo un decennio passato vicino a chi comunicava per lavoro, qualcosa è arrivato anche a me.... nulla di più. Credimi.
La cosa vera è quella detta da ing.korg: esercitare la propria curiosità, scegliendo i campi di maggior interesse. E via via gli altri campi ............................
woods77 Maresciallo
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Titolo: Re: Musiche del nostro esercito Mer 12 Nov 2014 - 13:01
Ora Ciccio permettimi visto che è un piacere immenso leggere quello che scrivi ti vorrei dare un imput....
Canzone cantata da Branduardi, per un film di Luigi Magni sulla vita di San Filippo Neri,
Vai cercando qua, vai cercando là, ma quando la morte ti coglierà che ti resterà delle tue voglie? Vanità di vanità.
Se felice sei dei pensieri tuoi, godendo solo d'argento e d'oro, alla fine che ti resterà? Vanità di vanità.
Vai cercando qua, vai cercando là, seguendo sempre felicità, sano, allegro e senza affanni... Vanità di vanità.
Se ora guardi allo specchio il tuo volto sereno non immagini certo quel che un giorno sarà della tua vanità.
Tutto vanità, solo vanità, vivete con gioia e semplicità, state buoni se potete... tutto il resto è vanità.
Tutto vanità, solo vanità, lodate il Signore con umiltà, a lui date tutto l'amore, nulla più vi mancherà.
francesco1017 Maresciallo capo
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Titolo: Re: Musiche del nostro esercito Mer 12 Nov 2014 - 19:19
Woods
Mi era sfuggito...... ora leggo con l'attenzione che merita.
Ho ricercato il thread proprio ora, e scoperto il tuo post, perchè sono stato fulminato da questa canzone di Celine Dionne, cantata a radio tre poca fa.
Come per le "tre donne eccellenti"
............e chiamala canzone
https://www.youtube.com/watch?v=gmB7OTcRC-Q
Lettre de George Sand à Alfred de Musset
Lettere d'amore: "tanto abbiamo amato e tanto, per questo, ci sarà perdonato".
http://chronica-libri.blogspot.it/2011/07/lettere-damore-tanto-abbiamo-amato-e.html Giulio Gasperini ROMA – George Sand (scrittrice e drammaturga francese 1804 - 1876 ) fu donna che si chiamò come un uomo; fumò come un uomo; indossò pantaloni come un uomo.
George Sand (nome vero: Amantine Aurore Lucile Dupin) di uomini, ne amò tanti; d’un amore che fu passione, estrema devozione, dedizione assoluta (“non c’è che l’amore che al mondo abbia qualche significato”).
George Sand fu donna che visse ogni singolo minuto dei suoi amori spesso contrastati e travagliati, ma sempre condivisi. Suo amante fu Chopin; suo amante fu Alfred de Musset, col quale intessé anche un rapporto epistolare delizioso e profondo, tradotto in italiano da Archinto, nel 1999. Le loro “Lettere d’amore” ci fanno penetrare, con grazia e discrezione, in un inverso complesso ma avvolgente, fatto di dolci atteggiamenti, furiose passioni e grande stima reciproca; quando ancora i rapporti non diventavano svogliati, e i sentimenti (le promesse!) eran più duraturi d’un sms o d’un commento su facebook.
Al di là dei meriti letterari della Sand, che scrisse un centinaio di opere in poco meno di cinquant’anni, rimane indubbio che, circoscritte all’amore (ma anche, a esser sinceri, alla politica), le sue posizioni si palesano d’una modernità disarmane, perché analizzate tramite una coscienza e un punto di vista debitamente calibrati non tanto sulla società e le sue tirannie, ma sostanzialmente sull’interiorità e sull’unico soggetto realmente interessato: il sé stesso, di chiunque sia.
E l’amore è la spinta propulsiva alla salvezza; tanto da credere, la Sand, profondamente, nella promessa che Gesù concesse alla Maddalena: tanto ha amato e tanto, per questo, le sarà perdonato. Il vero manifesto della teoria amorosa della Sand è la lettera datata “Venezia, 12 maggio 1834”, quella stessa che Céline Dion, nell’album D’Elles del 2007, ha cantato, plasmando, per la Sand, una voce che, probabilmente, supera qualsiasi tipo di aspettativa.
La lettera riguarda l’eredità dell’amore che, quando finisce, non può lasciare soltanto odio o rancore o, ancor peggio, indifferenza, perché comunque i due amanti hanno condiviso un frammento di vita, son stati compartecipi di esperienze comuni e hanno tessuto un universo che, in nessun altro luogo né spazio, potrà mai tornare uguale.
La Sand sa che il ricordo dei passati amori si solidifica nella coscienza d’un amante, si cristallizza in una sorta di memoria sentimentale, ma non per questo l’amore ne deve risentire, né esserne flagellato o straziato: "Ama, dunque, mio Alfred, ama per davvero. Ama una donna giovane, bella, e che ancora non abbia amato, né ancora sofferto. Prenditi cura di lei, non farla soffrire. Il cuore di una donna, quando non è di ghiaccio o di pietra, è così delicato!". Perché l’importante, per la Sand, è comunque la consapevolezza d’aver amato. Al di là di tutto, oltre a tutto, nonostante tutto: "Un giorno tu possa guardarti alle spalle e dire come me, spesso ho sofferto, a volte ho sbagliato, ma ho amato".
Celine Dion - Lettre De George Sand A Alfred De Musset [Letter from George Sand to Alfred de Musset]
si alternano francese e inglese
Venise, 12 mai 1834 [Venice, May 12th, 1834]
Non, mon enfant cheri Ces trois lettres ne sont pas Le dernier serment de main de l'amant qui te quitte C'est l'embrassement du frere qui te reste Ce sentiment la est trop beau, trop pur et trop doux Pour que j'eprouve jamais le besoin d'en finir avec lui Que mon souvenir n'empoisonne aucune des jouissances de ta vie Mais ne laisse pas ces jouissances detruire et mepriser mon souvenir Sois heureux, sois aime, comment ne le serais-tu pas? Mais garde-moi dans un petit coin secret de ton coeur Et descends-y dans tes jours de tristesse Pour y trouver une consolation ou un encouragement
[No, my cherished child Those three letters are not The last promise from the hand of the lover that leaves you It's the embrasement of the brother that remains you This feeling is too beautiful, too pure and too soft For me to ever feel the need to finish with it That my memory not poison any of your life pleasures But don't let those pleasures destroy or despise my memory Be happy, be loved, how could you not be? But keep me in a small corner of your heart And go down there in your days of sorrow To find some sympathy and encouragement]
Aime aurant qu'on maltraite Aime pour tout de bon Aime une femme, jeune et belle Et qui n'ait pas encore aime
[Love as much as we maltreat Love everything for good Love a woman, young and pretty And who has never loved]
Menage-la, et ne la fait pas souffrir Le coeur d'une femme est une chose si delicate
[Menage her, and don't make her suffer A woman's heart is such a delicate thing]
Quand ce n'est pas un glacon ou une pierre Je crois qu'il n'y a guere de milieu Et il n'y en pas non plus Dans ta maniere d'aimer
[When it's not a ice cube or a stone I believe there is no middle And it doesn't have any either In your way to love]
Ton ame est faite pour aimer ardamment Ou pour se desecher tout a fait Tu l'as dit cent fois Et tu as eu beau t'en dedire
[Your soul is made to love intensely Or to dry out totally You said it a hundred times And although you tried to remove your words]
Rien, rien n'a efface cette sentence-la Il n'y a au monde que l'amour Qui soit quelquechose Peut-etre m'as-tu aime avec haine Pour aimer une autre avec abandon Peut-etre celle qui viendra T'aimera-t-elle moins que moi Et peut-etre sera-t-elle plus heureuse Et plus aimee
[Nothing, nothing has erased that sentence In all the world there is only love That is something Maybe have you loved me with hate To love another one with surrender Maybe the one who will be coming Will love you more than I And maybe will she be happier And more loved]
Peut-etre ton dernier amour Sera-t-il le plus romanesque et le plus jeune Mais ton coeur, mais ton bon coeur, ne le tue pas je t'en prie Qu'il se mette tout entier dans tous les amours de ta vie Afin qu'un jour tu puisse regarder en arriere et dire comme moi "J'ai souffert souvent, je me suis trompe quelques fois... mais j'ai aime"
[Maybe your last love Will be your most romantic and the youngest But your heart, your good heart, don't kill it I beg you That it puts itself totally in all the loves of your life So that one day you can look back and say as I do: "I have suffered often, I was wrong sometimes... but I have loved"]