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"Il trucco è mettere in chiaro la differenza tra ciò che voi volete che accada e quello che sapete che accadrà."
"Il generale veramente eccellente è colui che cerca la vittoria prima della battaglia: non è bravo colui che cerca il combattimento prima della vittoria. Così un esercito vittorioso è tale prima ancora di combattere, mentre un esercito destinato alla sconfitta si batte senza speranza di vittoria."

 

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francesco1017
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MessaggioTitolo: Re: Musiche del nostro esercito   Musiche del nostro esercito - Pagina 78 Icon_minitimeMar 11 Nov 2014 - 13:33

Dedicato a  Woods

Te ne avevo appena parlato, ed ecco una notizia che ricorda anche ai più giovani "il parroco di Barbiana" e autore di "Lettera a una professoressa". Ecco,l'utilità di un forum pubblico ben funzionante

A Bra si intitola una scuola a don Lorenzo Milani


Cerimonia pubblica martedì 26 novembre alle 16:30 a Bra (CN)

Sarà intitolata a don Lorenzo Milani, il prete di Barbiana, la scuola primaria della Veneria di Bra. La sede che ospita anche la dirigenza del secondo circolo didattico cittadino è oggi dislocata tra lo storico edificio di via Europa e i nuovi locali in uso in viale Rimembranze, accorpando così le scuole primarie del quartiere dell’Oltreferrovia.

La cerimonia di intitolazione si svolgerà martedì 26 novembre 2013 alle ore 16:30 con un primo momento in viale Rimembranze, per poi trasferirsi in via Europa 15, alla presenza del sindaco Bruna Sibille, dell’assessore regionale all’istruzione Alberto Cirio e del dirigente del secondo circolo didattico, la dottoressa Silvana Manna. Con loro autorità locali, insegnanti, genitori e i giovani allievi dei due plessi scolastici, oltre al presidente del forum regionale per l’educazione e la scuola del PiemonteDomenico Chiesa.

La figura di don Milani sarà poi tratteggiata nel corso di un incontro pubblico organizzato, nella stessa serata di martedì 26 novembre, all’auditorium della Cassa di Risparmio di Bra di via Principi di Piemonte alle ore 20:45 dal titolo “Email ad una professoressa”, in un appuntamento organizzato dalla Cisl, dall’amministrazione civica e dall’Unità pastorale 50 Bra, Bandito, Sanfré. Moderati dal giornalista Valter Manzone, interverranno Agostino Burberi, primo allievo della scuola di Barbiana, Tina Pessina della fondazione don Milani, oggi preside del liceo Berchet di Milano, e Rosa Mongillo della segreteria nazionale di Cisl scuola.

Don Lorenzo Milani, nato a Firenze nel 1923, nel dicembre del 1954 venne mandato a Barbiana, minuscola e sperduta frazione di montagna nel comune di Vicchio, in Mugello, dove iniziò il primo tentativo di scuola a tempo pieno, espressamente rivolto alle classi popolari, dove, tra le altre cose, sperimentò il metodo della scrittura collettiva. La sua scuola era alloggiata in un paio di stanze della canonica annessa alla piccola chiesa, con la regola principale che, per tutto l’anno, chi sapeva di più aiutava e sosteneva chi sapeva di meno. Opera fondamentale della scuola di Barbiana fu “Lettera a una professoressa”, in cui i ragazzi della scuola (insieme a don Milani) denunciarono il sistema scolastico e il metodo didattico che favoriva l'istruzione delle classi più ricche (i cosiddetti "Pierini"), ignorando la piaga dell'analfabetismo che interessava gran parte del paese.

c.s.[/b]
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MessaggioTitolo: Re: Musiche del nostro esercito   Musiche del nostro esercito - Pagina 78 Icon_minitimeMar 11 Nov 2014 - 17:30

francesco1017 ha scritto:
Dedicato a  Woods

Te ne avevo appena parlato, ed ecco una notizia che ricorda anche ai più giovani "il parroco di Barbiana" e autore di "Lettera a una professoressa". Ecco,l'utilità di un forum pubblico ben funzionante

A Bra si intitola una scuola a don Lorenzo Milani


Cerimonia pubblica martedì 26 novembre alle 16:30  a Bra (CN)

Sarà intitolata a don Lorenzo Milani, il prete di Barbiana, la scuola primaria della Veneria di Bra. La sede che ospita anche la dirigenza del secondo circolo didattico cittadino è oggi dislocata tra lo storico edificio di via Europa e i nuovi locali in uso in viale Rimembranze, accorpando così le scuole primarie del quartiere dell’Oltreferrovia.

La cerimonia di intitolazione si svolgerà martedì 26 novembre 2013 alle ore 16:30 con un primo momento in viale Rimembranze, per poi trasferirsi in via Europa 15, alla presenza del sindaco Bruna Sibille, dell’assessore regionale all’istruzione Alberto Cirio e del dirigente del secondo circolo didattico, la dottoressa Silvana Manna. Con loro autorità locali, insegnanti, genitori e i giovani allievi dei due plessi scolastici, oltre al presidente del forum regionale per l’educazione e la scuola del PiemonteDomenico Chiesa.

La figura di don Milani sarà poi tratteggiata nel corso di un incontro pubblico organizzato, nella stessa serata di martedì 26 novembre, all’auditorium della Cassa di Risparmio di Bra di via Principi di Piemonte alle ore 20:45 dal titolo “Email ad una professoressa”, in un appuntamento organizzato dalla Cisl, dall’amministrazione civica e dall’Unità pastorale 50 Bra, Bandito, Sanfré. Moderati dal giornalista Valter Manzone, interverranno Agostino Burberi, primo allievo della scuola di Barbiana, Tina Pessina della fondazione don Milani, oggi preside del liceo Berchet di Milano, e Rosa Mongillo della segreteria nazionale di Cisl scuola.

Don Lorenzo Milani, nato a Firenze nel 1923, nel dicembre del 1954 venne mandato a Barbiana, minuscola e sperduta frazione di montagna nel comune di Vicchio, in Mugello, dove iniziò il primo tentativo di scuola a tempo pieno, espressamente rivolto alle classi popolari, dove, tra le altre cose, sperimentò il metodo della scrittura collettiva. La sua scuola era alloggiata in un paio di stanze della canonica annessa alla piccola chiesa, con la regola principale che, per tutto l’anno, chi sapeva di più aiutava e sosteneva chi sapeva di meno. Opera fondamentale della scuola di Barbiana fu “Lettera a una professoressa”, in cui i ragazzi della scuola (insieme a don Milani) denunciarono il sistema scolastico e il metodo didattico che favoriva l'istruzione delle classi più ricche (i cosiddetti "Pierini"), ignorando la piaga dell'analfabetismo che interessava gran parte del paese.

c.s.[/b]
Valori che condivido pienamente
Purtroppo siamo in pochi e spero di sbaliarmi, a rinunciare se stessi per gli altri.... vorrei solo far presente che Io Oggi Vivo In Un Paese Dove Chiamo ONOREVOLE Mad  Colui Che Di ONORE Non Ne Sà Niente, anzi se lo avesse avuto non avrebbe mai ricoperto un ruolo di tale importanza.Very Happy Very Happy
P.s. Tante Volte ci dovesse essere qualche Onorevole tra di noi sappia che io alle prossime elezioni lo voterò Very Happy Very Happy inchino inchino inchino inchino inchino
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MessaggioTitolo: Re: Musiche del nostro esercito   Musiche del nostro esercito - Pagina 78 Icon_minitimeMar 11 Nov 2014 - 17:37

Giusto perchè mi sono innervosito Very Happy
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MessaggioTitolo: Re: Musiche del nostro esercito   Musiche del nostro esercito - Pagina 78 Icon_minitimeMar 11 Nov 2014 - 23:38

woods77 ha scritto:

Ciccio sei grande inchino
sono daccordo con te ma ognuno sfoggia la propria cultura..... io ne ho veramente poca poca Sad ma quando posso cerco di seguirvi nelle vostre discussioni dove purtroppo non posso partecipare ma mi interessano ASSAI.
Quindi grazie a VOI cresco come DIVERSAMENTE ACCULTURATO Very Happy


In sociologia

Influenzata dagli studi dell'antropologia culturale, la sociologia si dedica con particolare attenzione allo studio della cultura. Secondo la concezione di Tylor (antropologo inglese - 1871), si definisce cultura quell’insieme di segni, artefatti e modi di vita che gli individui condividono. In senso antropologico, cultura è tutto ciò che possiede un determinato significato (simboli, linguaggio), e il termine è riferito a un gruppo specifico: la cultura ha quindi dei confini riconoscibili. A partire dagli anni 60/70 del 900, il concetto di cultura ha iniziato ad avere un ruolo centrale e non più marginale. La struttura produttiva e occupazionale (società dei servizi) cambia e si sviluppano i vari settori. La cultura dunque porta cambiamento, che a sua volta valorizza il marketing, la qualità del prodotto, le strategie economiche: tutti elementi che necessitano la conoscenza. Ogni cultura è relativa alla società o al gruppo a cui appartiene. Essa può essere per esempio la vita familiare, la religione, gli abbigliamenti, le consuetudini ecc, ed è limitata ad un determinato arco di tempo e luogo. Uno dei più grossi errori della storia è stato quello di gerarchizzare la cultura, un vero e proprio atto di egoismo che ha comportato la credenza e il sostenimento di culture “superiori” ad altre, generando il blocco culturale delle nazioni e quindi conflitti internazionali. Oggi invece siamo nel pieno della globalizzazione: si può dunque parlare di Sincretismo, la fusione/conciliazione di più credenze.


Personalmente sono convinto che l'importante sia l'essere..........curiosi......avere sete.......di conoscere.......come il bambino che smonta il giocattolo per capire come è fatto.......
E.........non smettere......... mai........finché avrai vita.

La cultura viene poi ..........da se........maaaaaa......sarà solo.........un illusione......credere di averla raggiunta.
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MessaggioTitolo: Re: Musiche del nostro esercito   Musiche del nostro esercito - Pagina 78 Icon_minitimeMer 12 Nov 2014 - 8:23

ing.korg ha scritto:
woods77 ha scritto:

Ciccio sei grande inchino
sono daccordo con te ma ognuno sfoggia la propria cultura..... io ne ho veramente poca poca Sad ma quando posso cerco di seguirvi nelle vostre discussioni dove purtroppo non posso partecipare ma mi interessano ASSAI.
Quindi grazie a VOI cresco come DIVERSAMENTE ACCULTURATO Very Happy


In sociologia

Influenzata dagli studi dell'antropologia culturale, la sociologia si dedica con particolare attenzione allo studio della cultura. Secondo la concezione di Tylor (antropologo inglese - 1871), si definisce cultura quell’insieme di segni, artefatti e modi di vita che gli individui condividono. In senso antropologico, cultura è tutto ciò che possiede un determinato significato (simboli, linguaggio), e il termine è riferito a un gruppo specifico: la cultura ha quindi dei confini riconoscibili. A partire dagli anni 60/70 del 900, il concetto di cultura ha iniziato ad avere un ruolo centrale e non più marginale. La struttura produttiva e occupazionale (società dei servizi) cambia e si sviluppano i vari settori. La cultura dunque porta cambiamento, che a sua volta valorizza il marketing, la qualità del prodotto, le strategie economiche: tutti elementi che necessitano la conoscenza. Ogni cultura è relativa alla società o al gruppo a cui appartiene. Essa può essere per esempio la vita familiare, la religione, gli abbigliamenti, le consuetudini ecc, ed è limitata ad un determinato arco di tempo e luogo. Uno dei più grossi errori della storia è stato quello di gerarchizzare la cultura, un vero e proprio atto di egoismo che ha comportato la credenza e il sostenimento di culture “superiori” ad altre, generando il blocco culturale delle nazioni e quindi conflitti internazionali. Oggi invece siamo nel pieno della globalizzazione: si può dunque parlare di Sincretismo, la fusione/conciliazione di più credenze.


Personalmente sono convinto che l'importante sia l'essere..........curiosi......avere sete.......di conoscere.......come il bambino che smonta il giocattolo per capire come è fatto.......
E.........non smettere......... mai........finché avrai vita.


La cultura viene poi......da se........maaaaaa......sarà solo.........un illusione......credere di averla raggiunta.

applauso applauso applauso applauso applauso

Hai detto,tutto, caro Ingegnere

inchino inchino inchino
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MessaggioTitolo: Re: Musiche del nostro esercito   Musiche del nostro esercito - Pagina 78 Icon_minitimeMer 12 Nov 2014 - 8:31

woods77 ha scritto:
Giusto perchè mi sono innervosito  Very Happy

Vedi caro woods, quanto profondo e' questo contributo sonoro
.

Ci hai fatto riflettere, mi hai fatto pensare a tante cose..... Hai dato un contributo "culturale", uso  questo aggettivo per comodità.

Abbi fiducia nello spirito di "intelligenza collettiva" che aleggia su questo blog.

Il tasso di intelligenza aumenta con contributi come il tuo.... non "censurarti".



La riflessione indotta dal post di woods

Io non mi sento italiano
di Francesco Buffoli , in  Storia della musica.it

Il Si­gnor G ci ha la­scia­to la mat­ti­na di ca­po­dan­no di quasi 9 anni fa, ma è più at­tua­le di qual­sia­si altro pro­dot­to made in italy mi sia ca­pi­ta­to a tiro in que­sto lungo pe­rio­do.

Anche con il suo ma­ni­fe­sto-te­sta­men­to, “Io non mi sento ita­lia­no”, che oggi più di ieri suona fre­schis­si­mo, tra­sci­nan­te, com­mo­ven­te.

Fac­cia­mo un passo in­die­tro: Gior­gio Gaber è uno fra i gran­di au­to­ri della can­zo­ne tri­co­lo­re, uno fra i pochi che hanno sa­pu­to aprir­le stra­de nuove, in­ven­tar­si una poe­ti­ca as­so­lu­ta­men­te per­so­na­le; è il pio­nie­re e l'in­ter­pre­te più su­bli­me del tea­tro-can­zo­ne, l'in­tel­let­tua­le an­ti-con­for­mi­sta e anar­chi­co per ec­cel­len­za.

Im­pos­si­bi­le in­qua­drar­lo, de­fi­nir­lo, ca­ta­lo­gar­lo: cer­ta­men­te è fi­glio della con­te­sta­zio­ne e della swin­gin' Milan degli anni '60 (di cui rap­pre­sen­ta uno fra i volti di primo piano, ac­can­to agli amici Ce­len­ta­no e Jan­nac­ci), cer­ta­men­te è un pro­dot­to di quel par­ti­co­la­re humus cul­tu­ra­le che ha dato ori­gi­ne alla sta­gio­ne più fe­li­ce della no­stra can­zo­ne d'au­to­re.

Ma ri­ma­ne fon­da­men­tal­men­te un so­li­ta­rio, uno spi­ri­to li­be­ro, un in­no­va­to­re coc­ciu­ta­men­te in­cam­mi­na­to lungo sen­tie­ri per­so­na­li che se ne frega com­ple­ta­men­te di ogni tipo di moda (sia que­sta la mu­si­ca po­li­ti­ciz­za­ta che, a volte, nel corso degli anni '70, as­su­me i con­tor­ni di una sgra­de­vo­le for­za­tu­ra; op­pu­re la me­lo­dia pre­con­fe­zio­na­ta che in­fe­sta i vari San­re­mo con i suoi sen­ti­men­ta­li­smi da quat­tro soldi; o an­co­ra la mu­si­ca da su­per­mer­ca­to pro­po­na­ta­ci più re­cen­te­men­te da ta­lent show e si­mi­li).

Gaber è il poeta della sem­pli­ci­tà: il suo lin­guag­gio è di­ret­to, pu­ris­si­mo, lim­pi­do “come un cielo d'e­sta­te sem­pre blu”. Ma non as­su­me mai i con­tor­ni della pre­di­ca né si cro­gio­la fra ba­na­li­tà as­sor­ti­te che par­la­no solo ad un pub­bli­co di con­ver­ti­ti (come ahimè fa da tempo buona parte della no­stra scena indie, in­ca­pa­ce dal mio punto di vista di pro­dur­re un au­to­re ve­ra­men­te si­gni­fi­ca­ti­vo, un “poeta” che abbia da of­fri­re una vi­sio­ne pro­pria - giu­sto Emi­dio Cle­men­ti rap­pre­sen­ta un'im­por­tan­te ec­ce­zio­ne).

Non è au­li­co né ri­cer­ca­to come le rime eru­di­te del­l'a­mi­co Fran­ce­sco Guc­ci­ni, né il suo li­ri­smo as­su­me i con­tor­ni del­l'in­vet­ti­va av­ve­le­na­ta; non è in­tri­so del sur­rea­li­smo amaro e in­co­no­cla­sta di Rino Gae­ta­no.

Nep­pu­re co­strui­sce una so­len­ni­tà quasi sto­ri­co-re­li­gio­sa, ar­ric­chi­ta dalle me­ta­fo­re ce­le­stia­li che inn­ver­va­no la pro­du­zio­ne di Fa­bri­zio De André: ep­pu­re Gaber è pro­fon­do e toc­can­te come que­sti au­to­ri.

Come gli altri gran­di, è ca­pa­ce di un umo­ri­smo ful­mi­nan­te ma sem­pre ele­gan­te e leg­ge­ro; e rie­sce a muo­ve­re corde pro­fon­de con una sem­pli­ce in­tui­zio­ne.

Si av­ver­te fra le pie­ghe della sua arte anche l'im­por­tan­za degli chan­son­nier d'ol­tral­pe, da Leo Ferrè a Geor­ge Bras­sens, e so­prat­tut­to, ov­via­men­te, il con­su­ma­to at­to­re tea­tra­le Jac­ques Brel (tanto da mo­del­la­re anche la ge­stua­li­tà su quel­la del genio belga), per­ché Gaber, così come il sommo Faber, è anche il can­to­re del po­po­lo degli umili, degli emar­gi­na­ti e dei di­sa­dat­ta­ti.

Li trat­ta sem­pre senza con­di­scen­den­za, ma con il ri­spet­to do­vu­to ad ogni es­se­re umano e con un'i­ro­nia leg­gia­dra e dol­cis­si­ma: e così i per­so­nag­gi che rav­vi­va­no la Mi­la­no po­po­la­re delle pe­ri­fe­rie di­ven­ta­no i pro­ta­go­ni­sti di sto­rie dal re­spi­ro uni­ver­sa­le, di­ven­ta­no af­fre­schi degni dei ca­po­la­vo­ri di un Ca­ra­vag­gio.

Ric­car­do che ama il bi­liar­do ed il Sig. Ce­rut­ti Cino, che gli amici al Giam­bel­li­no chia­ma­van “Drago”, sono de­sti­na­ti a se­gna­re la me­mo­ria col­let­ti­va per sem­pre. Sono fo­to­gra­fie in­gial­li­te ep­pu­re sem­pre at­tua­li di un mondo che, senza il Sig. G (ed al­cu­ni col­le­ghi) era de­sti­na­to a ri­ma­ne­re per sem­pre lon­ta­no dagli al­ta­ri delle cro­na­che, a sguaz­za­re in una su­bal­ter­ni­tà senza ri­me­dio, a per­der­si fra stra­de e pa­laz­zo­ni di se­cond'or­di­ne senza che nes­su­no ne evi­den­zias­se la straor­di­na­ria ca­ri­ca umana.

“Io non mi sento ita­lia­no”, pub­bli­ca­to po­stu­mo nel 2003, rac­chiu­de tutto ciò, è il Si­gnor G in tutte le sue sfac­cet­ta­tu­re ed in tutto il suo li­ri­si­mo im­ma­gi­ni­fi­co. "Io non mi sento ita­lia­no" è il disco di un no­bi­le ever­so­re.

Ogni pezzo me­ri­te­reb­be un'ap­pro­fon­di­ta ana­li­si che qui, anche solo per mo­ti­vi di spa­zio, ri­sul­ta dif­fi­ci­le col­lo­ca­re.

Ma la­scia­te­mi ce­le­bra­re al­cu­ni mo­men­ti di una bel­lez­za stra­zian­te, le ver­ti­gi­ni che pa­ro­le as­so­lu­ta­men­te co­mu­ni pos­so­no pro­vo­ca­re se in­ca­sto­na­te nei testi del Sig. G.

“Il tutto è falso” è un'a­ma­ra ri­fles­sio­ne sulle con­trad­di­zio­ni senza spe­ran­za della con­tem­po­ra­nei­tà, e si di­vin­co­la fra la paura del mondo che verrà la­scia­to ai no­stri figli, l'or­ro­re per una tec­no­lo­gia to­ta­liz­zan­te che ci sta pri­van­do del re­spi­ro, e guar­da poi a pro­ble­ma­ti­che uni­ver­sa­li.

Alle stor­tu­re del mer­ca­to, alle guer­re ed alle sof­fe­ren­ze più atro­ci che il no­stro fa­sci­smo edo­ni­sta ci co­strin­ge a vi­ve­re come fos­se­ro un ro­man­zo gial­lo,  cal­pe­stan­do anche quel bri­cio­lo di uma­ni­tà che an­co­ra ci resta (tema ri­pre­so nella me­ra­vi­glio­sa “C'è un'a­ria”, sprez­zan­te e sar­ca­sti­co ri­trat­to del mondo dei no­stri media: “E c’è un gusto mor­bo­so del me­stie­re d’in­for­ma­re, uno sfog­gio di pen­sie­ri senza mai l’om­bra di un do­lo­re e le mi­se­rie umane rac­con­ta­te come film gial­li, sono tra­ge­die osce­ne che sod­di­sfa­no la fame di que­sti avidi scia­cal­li”).

“Non in­se­gna­te ai bam­bi­ni” è su­bil­me ode al­l'in­fan­zia degna di un Fe­de­ri­co Gar­cìa Lorca, e pren­de a sas­sa­te ogni forma di pre­ma­tu­ro ab­brut­ti­men­to, det­ta­to da una mo­ra­le stan­ca o dalla manìa di in­dos­sa­re uni­for­mi ed im­brac­cia­re armi con­tro il ne­mi­co di turno, che av­ve­le­na il no­stro clima cul­tu­ra­le sin dalla più te­ne­ra età.

“Giro giro tondo, cam­bia il mondo” è la de­fi­ni­ti­va ce­le­bra­zio­ne del po­te­re li­be­ra­to­rio ed ever­si­vo del­l'e­tà “mi­ti­ca” per ec­cel­len­za, e fa scor­re­re pe­san­ti bri­vi­di lungo la schie­na ogni volta.

Si pro­se­gue sulle corde stra­zia­te de “Il Di­lem­ma”, sof­fer­to ri­trat­to dei dubbi che pos­so­no cor­ro­de­re le sto­rie d'a­mo­re e con­clu­der­si nel modo più tra­gi­co. Ri­trat­to di ampio re­spi­ro e privo di stoc­ca­te ve­le­no­se: qui Gaber è com­mos­so e de­li­ca­tis­si­mo, e non usa mai la mano pe­san­te.

Da ascol­ta­re sono anche la di­ver­ti­ta “Il Cor­rot­to”, che è sia scu­lac­cia­ta a certi fa­ci­li mo­ra­li­smi che tetra raf­fi­gu­ra­zio­ne di un mondo scar­ni­fi­ca­to ove tutto è merce, ed ov­via­men­te anche il sesso; così come la fi­lo­so­fi­ca “I mo­stri che ab­bia­mo den­tro”, ri­fles­sio­ne au­ste­ra sul­l'e­ter­no dua­li­smo del­l'a­ni­mo umano ricca di spun­ti che po­treb­be­ro va­lo­riz­za­re, quasi da soli, la car­rie­ra di tanti pre­sun­ti can­tau­to­ri di oggi e di ieri.

Ho vo­lu­ta­men­te la­scia­to un po' di spa­zio per la ce­le­bre ti­tle-track, che rap­pre­sen­ta la de­fi­ni­ti­va di­chia­ra­zio­ne d'in­di­pen­den­za senza li­mi­ti e com­pro­mes­si del Sig. G. (“Mi scusi Pre­si­den­te, se ar­ri­vo al­l'im­pu­den­za, di dire che non sento al­cu­na ap­par­te­nen­za”), inno alla li­ber­tà ed al va­lo­re della vita in quan­to tale (così come “Se ci fosse un uomo”), senza stec­cha­ti, bar­rie­re, inni e ban­die­re: sem­pli­ce­men­te, l'uo­mo al cen­tro di tutto.

Non è un inno an­ti-ita­lia­no (anche per­ché oggi una si­mi­le af­fer­ma­zio­ne evoca su­bi­to sgra­de­vo­li ca­mi­cie verdi): anzi, pren­de ac­co­ra­ta­men­te le di­fe­se della cul­tu­ra e della sto­ria del bel­pae­se, quan­do serve per fron­teg­gia­re luo­ghi co­mu­ni be­ce­ri e raz­zi­smo in­ver­ti­to (“Mi scusi Pre­si­den­te ma forse noi ita­lia­ni per gli altri siamo so­lo­spa­ghet­ti e man­do­li­ni. Al­lo­ra qui mi in­caz­zo son fiero e me ne vanto, gli sbat­to sulla fac­cia cos'è il Ri­na­sci­men­to”). Ma sa leg­ge­re fra le righe la re­to­ri­ca scial­ba e vuota che cir­con­da le ce­le­bra­zio­ni del­l'in­no e del na­zio­na­li­smo più in­sul­so.

La mu­si­ca è ovun­que un ele­gan­te, di­scre­to tap­pe­to di archi (e spo­ra­di­ca­men­te fiati) che evi­den­zia e va­lo­riz­za le pa­ro­le di Gior­gio. Giu­sto la ti­tle-track è più mo­vi­men­ta, una mar­cia spas­so­sa e ricca di co­lo­ri e sfu­ma­tu­re, pic­co­la gemma di ritmi ed in­ca­stri in­ge­gno­si.

Gli ar­ran­gia­men­ti sono in ogni caso pun­tua­li, mi­su­ra­ti, pu­li­ti: e la forza del disco, così come in ogni opera d'au­to­re che si ri­spet­ti, sta pro­prio nella fu­sio­ne equi­li­bra­ta fra la sua in­ten­si­tà li­ri­ca ed il pae­sag­gio ove pa­ro­le e con­cet­ti pren­do­no forma.

In pochi hanno sa­pu­to co­niu­ga­re un ibri­do pa­ra­go­na­bi­le a quel­lo del Sig. G: ed al­lo­ra che il no­stro “anar­chi­co” possa in­ven­ta­re ed emo­zia­re anche da lassù, che le sue pa­ro­le siano una boc­ca­ta d'a­ria fre­sca per tutti quel­li che stan­no ri­po­san­do ac­can­to a lui.
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MessaggioTitolo: Re: Musiche del nostro esercito   Musiche del nostro esercito - Pagina 78 Icon_minitimeMer 12 Nov 2014 - 12:46

francesco1017 ha scritto:
woods77 ha scritto:
Giusto perchè mi sono innervosito  Very Happy

Vedi caro woods, quanto profondo e' questo contributo sonoro
.

Ci hai fatto riflettere, mi hai fatto pensare a tante cose..... Hai dato un contributo "culturale", uso  questo aggettivo per comodità.

Abbi fiducia nello spirito di "intelligenza collettiva" che aleggia su questo blog.

Il tasso di intelligenza aumenta con contributi come il tuo.... non "censurarti".



La riflessione indotta dal post di woods

Io non mi sento italiano
di Francesco Buffoli , in  Storia della musica.it

Il Si­gnor G ci ha la­scia­to la mat­ti­na di ca­po­dan­no di quasi 9 anni fa, ma è più at­tua­le di qual­sia­si altro pro­dot­to made in italy mi sia ca­pi­ta­to a tiro in que­sto lungo pe­rio­do.

Anche con il suo ma­ni­fe­sto-te­sta­men­to, “Io non mi sento ita­lia­no”, che oggi più di ieri suona fre­schis­si­mo, tra­sci­nan­te, com­mo­ven­te.

Fac­cia­mo un passo in­die­tro: Gior­gio Gaber è uno fra i gran­di au­to­ri della can­zo­ne tri­co­lo­re, uno fra i pochi che hanno sa­pu­to aprir­le stra­de nuove, in­ven­tar­si una poe­ti­ca as­so­lu­ta­men­te per­so­na­le; è il pio­nie­re e l'in­ter­pre­te più su­bli­me del tea­tro-can­zo­ne, l'in­tel­let­tua­le an­ti-con­for­mi­sta e anar­chi­co per ec­cel­len­za.

Im­pos­si­bi­le in­qua­drar­lo, de­fi­nir­lo, ca­ta­lo­gar­lo: cer­ta­men­te è fi­glio della con­te­sta­zio­ne e della swin­gin' Milan degli anni '60 (di cui rap­pre­sen­ta uno fra i volti di primo piano, ac­can­to agli amici Ce­len­ta­no e Jan­nac­ci), cer­ta­men­te è un pro­dot­to di quel par­ti­co­la­re humus cul­tu­ra­le che ha dato ori­gi­ne alla sta­gio­ne più fe­li­ce della no­stra can­zo­ne d'au­to­re.

Ma ri­ma­ne fon­da­men­tal­men­te un so­li­ta­rio, uno spi­ri­to li­be­ro, un in­no­va­to­re coc­ciu­ta­men­te in­cam­mi­na­to lungo sen­tie­ri per­so­na­li che se ne frega com­ple­ta­men­te di ogni tipo di moda (sia que­sta la mu­si­ca po­li­ti­ciz­za­ta che, a volte, nel corso degli anni '70, as­su­me i con­tor­ni di una sgra­de­vo­le for­za­tu­ra; op­pu­re la me­lo­dia pre­con­fe­zio­na­ta che in­fe­sta i vari San­re­mo con i suoi sen­ti­men­ta­li­smi da quat­tro soldi; o an­co­ra la mu­si­ca da su­per­mer­ca­to pro­po­na­ta­ci più re­cen­te­men­te da ta­lent show e si­mi­li).

Gaber è il poeta della sem­pli­ci­tà: il suo lin­guag­gio è di­ret­to, pu­ris­si­mo, lim­pi­do “come un cielo d'e­sta­te sem­pre blu”. Ma non as­su­me mai i con­tor­ni della pre­di­ca né si cro­gio­la fra ba­na­li­tà as­sor­ti­te che par­la­no solo ad un pub­bli­co di con­ver­ti­ti (come ahimè fa da tempo buona parte della no­stra scena indie, in­ca­pa­ce dal mio punto di vista di pro­dur­re un au­to­re ve­ra­men­te si­gni­fi­ca­ti­vo, un “poeta” che abbia da of­fri­re una vi­sio­ne pro­pria - giu­sto Emi­dio Cle­men­ti rap­pre­sen­ta un'im­por­tan­te ec­ce­zio­ne).

Non è au­li­co né ri­cer­ca­to come le rime eru­di­te del­l'a­mi­co Fran­ce­sco Guc­ci­ni, né il suo li­ri­smo as­su­me i con­tor­ni del­l'in­vet­ti­va av­ve­le­na­ta; non è in­tri­so del sur­rea­li­smo amaro e in­co­no­cla­sta di Rino Gae­ta­no.

Nep­pu­re co­strui­sce una so­len­ni­tà quasi sto­ri­co-re­li­gio­sa, ar­ric­chi­ta dalle me­ta­fo­re ce­le­stia­li che inn­ver­va­no la pro­du­zio­ne di Fa­bri­zio De André: ep­pu­re Gaber è pro­fon­do e toc­can­te come que­sti au­to­ri.

Come gli altri gran­di, è ca­pa­ce di un umo­ri­smo ful­mi­nan­te ma sem­pre ele­gan­te e leg­ge­ro; e rie­sce a muo­ve­re corde pro­fon­de con una sem­pli­ce in­tui­zio­ne.

Si av­ver­te fra le pie­ghe della sua arte anche l'im­por­tan­za degli chan­son­nier d'ol­tral­pe, da Leo Ferrè a Geor­ge Bras­sens, e so­prat­tut­to, ov­via­men­te, il con­su­ma­to at­to­re tea­tra­le Jac­ques Brel (tanto da mo­del­la­re anche la ge­stua­li­tà su quel­la del genio belga), per­ché Gaber, così come il sommo Faber, è anche il can­to­re del po­po­lo degli umili, degli emar­gi­na­ti e dei di­sa­dat­ta­ti.

Li trat­ta sem­pre senza con­di­scen­den­za, ma con il ri­spet­to do­vu­to ad ogni es­se­re umano e con un'i­ro­nia leg­gia­dra e dol­cis­si­ma: e così i per­so­nag­gi che rav­vi­va­no la Mi­la­no po­po­la­re delle pe­ri­fe­rie di­ven­ta­no i pro­ta­go­ni­sti di sto­rie dal re­spi­ro uni­ver­sa­le, di­ven­ta­no af­fre­schi degni dei ca­po­la­vo­ri di un Ca­ra­vag­gio.

Ric­car­do che ama il bi­liar­do ed il Sig. Ce­rut­ti Cino, che gli amici al Giam­bel­li­no chia­ma­van “Drago”, sono de­sti­na­ti a se­gna­re la me­mo­ria col­let­ti­va per sem­pre. Sono fo­to­gra­fie in­gial­li­te ep­pu­re sem­pre at­tua­li di un mondo che, senza il Sig. G (ed al­cu­ni col­le­ghi) era de­sti­na­to a ri­ma­ne­re per sem­pre lon­ta­no dagli al­ta­ri delle cro­na­che, a sguaz­za­re in una su­bal­ter­ni­tà senza ri­me­dio, a per­der­si fra stra­de e pa­laz­zo­ni di se­cond'or­di­ne senza che nes­su­no ne evi­den­zias­se la straor­di­na­ria ca­ri­ca umana.

“Io non mi sento ita­lia­no”, pub­bli­ca­to po­stu­mo nel 2003, rac­chiu­de tutto ciò, è il Si­gnor G in tutte le sue sfac­cet­ta­tu­re ed in tutto il suo li­ri­si­mo im­ma­gi­ni­fi­co. "Io non mi sento ita­lia­no" è il disco di un no­bi­le ever­so­re.

Ogni pezzo me­ri­te­reb­be un'ap­pro­fon­di­ta ana­li­si che qui, anche solo per mo­ti­vi di spa­zio, ri­sul­ta dif­fi­ci­le col­lo­ca­re.

Ma la­scia­te­mi ce­le­bra­re al­cu­ni mo­men­ti di una bel­lez­za stra­zian­te, le ver­ti­gi­ni che pa­ro­le as­so­lu­ta­men­te co­mu­ni pos­so­no pro­vo­ca­re se in­ca­sto­na­te nei testi del Sig. G.

“Il tutto è falso” è un'a­ma­ra ri­fles­sio­ne sulle con­trad­di­zio­ni senza spe­ran­za della con­tem­po­ra­nei­tà, e si di­vin­co­la fra la paura del mondo che verrà la­scia­to ai no­stri figli, l'or­ro­re per una tec­no­lo­gia to­ta­liz­zan­te che ci sta pri­van­do del re­spi­ro, e guar­da poi a pro­ble­ma­ti­che uni­ver­sa­li.

Alle stor­tu­re del mer­ca­to, alle guer­re ed alle sof­fe­ren­ze più atro­ci che il no­stro fa­sci­smo edo­ni­sta ci co­strin­ge a vi­ve­re come fos­se­ro un ro­man­zo gial­lo,  cal­pe­stan­do anche quel bri­cio­lo di uma­ni­tà che an­co­ra ci resta (tema ri­pre­so nella me­ra­vi­glio­sa “C'è un'a­ria”, sprez­zan­te e sar­ca­sti­co ri­trat­to del mondo dei no­stri media: “E c’è un gusto mor­bo­so del me­stie­re d’in­for­ma­re, uno sfog­gio di pen­sie­ri senza mai l’om­bra di un do­lo­re e le mi­se­rie umane rac­con­ta­te come film gial­li, sono tra­ge­die osce­ne che sod­di­sfa­no la fame di que­sti avidi scia­cal­li”).

“Non in­se­gna­te ai bam­bi­ni” è su­bil­me ode al­l'in­fan­zia degna di un Fe­de­ri­co Gar­cìa Lorca, e pren­de a sas­sa­te ogni forma di pre­ma­tu­ro ab­brut­ti­men­to, det­ta­to da una mo­ra­le stan­ca o dalla manìa di in­dos­sa­re uni­for­mi ed im­brac­cia­re armi con­tro il ne­mi­co di turno, che av­ve­le­na il no­stro clima cul­tu­ra­le sin dalla più te­ne­ra età.

“Giro giro tondo, cam­bia il mondo” è la de­fi­ni­ti­va ce­le­bra­zio­ne del po­te­re li­be­ra­to­rio ed ever­si­vo del­l'e­tà “mi­ti­ca” per ec­cel­len­za, e fa scor­re­re pe­san­ti bri­vi­di lungo la schie­na ogni volta.

Si pro­se­gue sulle corde stra­zia­te de “Il Di­lem­ma”, sof­fer­to ri­trat­to dei dubbi che pos­so­no cor­ro­de­re le sto­rie d'a­mo­re e con­clu­der­si nel modo più tra­gi­co. Ri­trat­to di ampio re­spi­ro e privo di stoc­ca­te ve­le­no­se: qui Gaber è com­mos­so e de­li­ca­tis­si­mo, e non usa mai la mano pe­san­te.

Da ascol­ta­re sono anche la di­ver­ti­ta “Il Cor­rot­to”, che è sia scu­lac­cia­ta a certi fa­ci­li mo­ra­li­smi che tetra raf­fi­gu­ra­zio­ne di un mondo scar­ni­fi­ca­to ove tutto è merce, ed ov­via­men­te anche il sesso; così come la fi­lo­so­fi­ca “I mo­stri che ab­bia­mo den­tro”, ri­fles­sio­ne au­ste­ra sul­l'e­ter­no dua­li­smo del­l'a­ni­mo umano ricca di spun­ti che po­treb­be­ro va­lo­riz­za­re, quasi da soli, la car­rie­ra di tanti pre­sun­ti can­tau­to­ri di oggi e di ieri.

Ho vo­lu­ta­men­te la­scia­to un po' di spa­zio per la ce­le­bre ti­tle-track, che rap­pre­sen­ta la de­fi­ni­ti­va di­chia­ra­zio­ne d'in­di­pen­den­za senza li­mi­ti e com­pro­mes­si del Sig. G. (“Mi scusi Pre­si­den­te, se ar­ri­vo al­l'im­pu­den­za, di dire che non sento al­cu­na ap­par­te­nen­za”), inno alla li­ber­tà ed al va­lo­re della vita in quan­to tale (così come “Se ci fosse un uomo”), senza stec­cha­ti, bar­rie­re, inni e ban­die­re: sem­pli­ce­men­te, l'uo­mo al cen­tro di tutto.

Non è un inno an­ti-ita­lia­no (anche per­ché oggi una si­mi­le af­fer­ma­zio­ne evoca su­bi­to sgra­de­vo­li ca­mi­cie verdi): anzi, pren­de ac­co­ra­ta­men­te le di­fe­se della cul­tu­ra e della sto­ria del bel­pae­se, quan­do serve per fron­teg­gia­re luo­ghi co­mu­ni be­ce­ri e raz­zi­smo in­ver­ti­to (“Mi scusi Pre­si­den­te ma forse noi ita­lia­ni per gli altri siamo so­lo­spa­ghet­ti e man­do­li­ni. Al­lo­ra qui mi in­caz­zo son fiero e me ne vanto, gli sbat­to sulla fac­cia cos'è il Ri­na­sci­men­to”). Ma sa leg­ge­re fra le righe la re­to­ri­ca scial­ba e vuota che cir­con­da le ce­le­bra­zio­ni del­l'in­no e del na­zio­na­li­smo più in­sul­so.

La mu­si­ca è ovun­que un ele­gan­te, di­scre­to tap­pe­to di archi (e spo­ra­di­ca­men­te fiati) che evi­den­zia e va­lo­riz­za le pa­ro­le di Gior­gio. Giu­sto la ti­tle-track è più mo­vi­men­ta, una mar­cia spas­so­sa e ricca di co­lo­ri e sfu­ma­tu­re, pic­co­la gemma di ritmi ed in­ca­stri in­ge­gno­si.

Gli ar­ran­gia­men­ti sono in ogni caso pun­tua­li, mi­su­ra­ti, pu­li­ti: e la forza del disco, così come in ogni opera d'au­to­re che si ri­spet­ti, sta pro­prio nella fu­sio­ne equi­li­bra­ta fra la sua in­ten­si­tà li­ri­ca ed il pae­sag­gio ove pa­ro­le e con­cet­ti pren­do­no forma.

In pochi hanno sa­pu­to co­niu­ga­re un ibri­do pa­ra­go­na­bi­le a quel­lo del Sig. G: ed al­lo­ra che il no­stro “anar­chi­co” possa in­ven­ta­re ed emo­zia­re anche da lassù, che le sue pa­ro­le siano una boc­ca­ta d'a­ria fre­sca per tutti quel­li che stan­no ri­po­san­do ac­can­to a lui.
Vedi quello che intendevo io? Sono un diversamente acculturato,Very Happy quello che hai scritto nella mia testa ha trovato una sintonia incredibile, come se fossero pensieri miei, ma non sarei mai riuscito ad esprimere tutto ciò.
Grazie per i tuoi contributi inchino inchino inchino inchino inchino inchino
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MessaggioTitolo: Re: Musiche del nostro esercito   Musiche del nostro esercito - Pagina 78 Icon_minitimeMer 12 Nov 2014 - 12:55

woods77 ha scritto:
francesco1017 ha scritto:
woods77 ha scritto:
Giusto perchè mi sono innervosito  Very Happy

Vedi caro woods, quanto profondo e' questo contributo sonoro
.

Ci hai fatto riflettere, mi hai fatto pensare a tante cose..... Hai dato un contributo "culturale", uso  questo aggettivo per comodità.

Abbi fiducia nello spirito di "intelligenza collettiva" che aleggia su questo blog.

Il tasso di intelligenza aumenta con contributi come il tuo.... non "censurarti".



La riflessione indotta dal post di woods

Io non mi sento italiano
di Francesco Buffoli , in  Storia della musica.it

Il Si­gnor G ci ha la­scia­to la mat­ti­na di ca­po­dan­no di quasi 9 anni fa, ma è più at­tua­le di qual­sia­si altro pro­dot­to made in italy mi sia ca­pi­ta­to a tiro in que­sto lungo pe­rio­do.

Anche con il suo ma­ni­fe­sto-te­sta­men­to, “Io non mi sento ita­lia­no”, che oggi più di ieri suona fre­schis­si­mo, tra­sci­nan­te, com­mo­ven­te.

Fac­cia­mo un passo in­die­tro: Gior­gio Gaber è uno fra i gran­di au­to­ri della can­zo­ne tri­co­lo­re, uno fra i pochi che hanno sa­pu­to aprir­le stra­de nuove, in­ven­tar­si una poe­ti­ca as­so­lu­ta­men­te per­so­na­le; è il pio­nie­re e l'in­ter­pre­te più su­bli­me del tea­tro-can­zo­ne, l'in­tel­let­tua­le an­ti-con­for­mi­sta e anar­chi­co per ec­cel­len­za.

Im­pos­si­bi­le in­qua­drar­lo, de­fi­nir­lo, ca­ta­lo­gar­lo: cer­ta­men­te è fi­glio della con­te­sta­zio­ne e della swin­gin' Milan degli anni '60 (di cui rap­pre­sen­ta uno fra i volti di primo piano, ac­can­to agli amici Ce­len­ta­no e Jan­nac­ci), cer­ta­men­te è un pro­dot­to di quel par­ti­co­la­re humus cul­tu­ra­le che ha dato ori­gi­ne alla sta­gio­ne più fe­li­ce della no­stra can­zo­ne d'au­to­re.

Ma ri­ma­ne fon­da­men­tal­men­te un so­li­ta­rio, uno spi­ri­to li­be­ro, un in­no­va­to­re coc­ciu­ta­men­te in­cam­mi­na­to lungo sen­tie­ri per­so­na­li che se ne frega com­ple­ta­men­te di ogni tipo di moda (sia que­sta la mu­si­ca po­li­ti­ciz­za­ta che, a volte, nel corso degli anni '70, as­su­me i con­tor­ni di una sgra­de­vo­le for­za­tu­ra; op­pu­re la me­lo­dia pre­con­fe­zio­na­ta che in­fe­sta i vari San­re­mo con i suoi sen­ti­men­ta­li­smi da quat­tro soldi; o an­co­ra la mu­si­ca da su­per­mer­ca­to pro­po­na­ta­ci più re­cen­te­men­te da ta­lent show e si­mi­li).

Gaber è il poeta della sem­pli­ci­tà: il suo lin­guag­gio è di­ret­to, pu­ris­si­mo, lim­pi­do “come un cielo d'e­sta­te sem­pre blu”. Ma non as­su­me mai i con­tor­ni della pre­di­ca né si cro­gio­la fra ba­na­li­tà as­sor­ti­te che par­la­no solo ad un pub­bli­co di con­ver­ti­ti (come ahimè fa da tempo buona parte della no­stra scena indie, in­ca­pa­ce dal mio punto di vista di pro­dur­re un au­to­re ve­ra­men­te si­gni­fi­ca­ti­vo, un “poeta” che abbia da of­fri­re una vi­sio­ne pro­pria - giu­sto Emi­dio Cle­men­ti rap­pre­sen­ta un'im­por­tan­te ec­ce­zio­ne).

Non è au­li­co né ri­cer­ca­to come le rime eru­di­te del­l'a­mi­co Fran­ce­sco Guc­ci­ni, né il suo li­ri­smo as­su­me i con­tor­ni del­l'in­vet­ti­va av­ve­le­na­ta; non è in­tri­so del sur­rea­li­smo amaro e in­co­no­cla­sta di Rino Gae­ta­no.

Nep­pu­re co­strui­sce una so­len­ni­tà quasi sto­ri­co-re­li­gio­sa, ar­ric­chi­ta dalle me­ta­fo­re ce­le­stia­li che inn­ver­va­no la pro­du­zio­ne di Fa­bri­zio De André: ep­pu­re Gaber è pro­fon­do e toc­can­te come que­sti au­to­ri.

Come gli altri gran­di, è ca­pa­ce di un umo­ri­smo ful­mi­nan­te ma sem­pre ele­gan­te e leg­ge­ro; e rie­sce a muo­ve­re corde pro­fon­de con una sem­pli­ce in­tui­zio­ne.

Si av­ver­te fra le pie­ghe della sua arte anche l'im­por­tan­za degli chan­son­nier d'ol­tral­pe, da Leo Ferrè a Geor­ge Bras­sens, e so­prat­tut­to, ov­via­men­te, il con­su­ma­to at­to­re tea­tra­le Jac­ques Brel (tanto da mo­del­la­re anche la ge­stua­li­tà su quel­la del genio belga), per­ché Gaber, così come il sommo Faber, è anche il can­to­re del po­po­lo degli umili, degli emar­gi­na­ti e dei di­sa­dat­ta­ti.

Li trat­ta sem­pre senza con­di­scen­den­za, ma con il ri­spet­to do­vu­to ad ogni es­se­re umano e con un'i­ro­nia leg­gia­dra e dol­cis­si­ma: e così i per­so­nag­gi che rav­vi­va­no la Mi­la­no po­po­la­re delle pe­ri­fe­rie di­ven­ta­no i pro­ta­go­ni­sti di sto­rie dal re­spi­ro uni­ver­sa­le, di­ven­ta­no af­fre­schi degni dei ca­po­la­vo­ri di un Ca­ra­vag­gio.

Ric­car­do che ama il bi­liar­do ed il Sig. Ce­rut­ti Cino, che gli amici al Giam­bel­li­no chia­ma­van “Drago”, sono de­sti­na­ti a se­gna­re la me­mo­ria col­let­ti­va per sem­pre. Sono fo­to­gra­fie in­gial­li­te ep­pu­re sem­pre at­tua­li di un mondo che, senza il Sig. G (ed al­cu­ni col­le­ghi) era de­sti­na­to a ri­ma­ne­re per sem­pre lon­ta­no dagli al­ta­ri delle cro­na­che, a sguaz­za­re in una su­bal­ter­ni­tà senza ri­me­dio, a per­der­si fra stra­de e pa­laz­zo­ni di se­cond'or­di­ne senza che nes­su­no ne evi­den­zias­se la straor­di­na­ria ca­ri­ca umana.

“Io non mi sento ita­lia­no”, pub­bli­ca­to po­stu­mo nel 2003, rac­chiu­de tutto ciò, è il Si­gnor G in tutte le sue sfac­cet­ta­tu­re ed in tutto il suo li­ri­si­mo im­ma­gi­ni­fi­co. "Io non mi sento ita­lia­no" è il disco di un no­bi­le ever­so­re.

Ogni pezzo me­ri­te­reb­be un'ap­pro­fon­di­ta ana­li­si che qui, anche solo per mo­ti­vi di spa­zio, ri­sul­ta dif­fi­ci­le col­lo­ca­re.

Ma la­scia­te­mi ce­le­bra­re al­cu­ni mo­men­ti di una bel­lez­za stra­zian­te, le ver­ti­gi­ni che pa­ro­le as­so­lu­ta­men­te co­mu­ni pos­so­no pro­vo­ca­re se in­ca­sto­na­te nei testi del Sig. G.

“Il tutto è falso” è un'a­ma­ra ri­fles­sio­ne sulle con­trad­di­zio­ni senza spe­ran­za della con­tem­po­ra­nei­tà, e si di­vin­co­la fra la paura del mondo che verrà la­scia­to ai no­stri figli, l'or­ro­re per una tec­no­lo­gia to­ta­liz­zan­te che ci sta pri­van­do del re­spi­ro, e guar­da poi a pro­ble­ma­ti­che uni­ver­sa­li.

Alle stor­tu­re del mer­ca­to, alle guer­re ed alle sof­fe­ren­ze più atro­ci che il no­stro fa­sci­smo edo­ni­sta ci co­strin­ge a vi­ve­re come fos­se­ro un ro­man­zo gial­lo,  cal­pe­stan­do anche quel bri­cio­lo di uma­ni­tà che an­co­ra ci resta (tema ri­pre­so nella me­ra­vi­glio­sa “C'è un'a­ria”, sprez­zan­te e sar­ca­sti­co ri­trat­to del mondo dei no­stri media: “E c’è un gusto mor­bo­so del me­stie­re d’in­for­ma­re, uno sfog­gio di pen­sie­ri senza mai l’om­bra di un do­lo­re e le mi­se­rie umane rac­con­ta­te come film gial­li, sono tra­ge­die osce­ne che sod­di­sfa­no la fame di que­sti avidi scia­cal­li”).

“Non in­se­gna­te ai bam­bi­ni” è su­bil­me ode al­l'in­fan­zia degna di un Fe­de­ri­co Gar­cìa Lorca, e pren­de a sas­sa­te ogni forma di pre­ma­tu­ro ab­brut­ti­men­to, det­ta­to da una mo­ra­le stan­ca o dalla manìa di in­dos­sa­re uni­for­mi ed im­brac­cia­re armi con­tro il ne­mi­co di turno, che av­ve­le­na il no­stro clima cul­tu­ra­le sin dalla più te­ne­ra età.

“Giro giro tondo, cam­bia il mondo” è la de­fi­ni­ti­va ce­le­bra­zio­ne del po­te­re li­be­ra­to­rio ed ever­si­vo del­l'e­tà “mi­ti­ca” per ec­cel­len­za, e fa scor­re­re pe­san­ti bri­vi­di lungo la schie­na ogni volta.

Si pro­se­gue sulle corde stra­zia­te de “Il Di­lem­ma”, sof­fer­to ri­trat­to dei dubbi che pos­so­no cor­ro­de­re le sto­rie d'a­mo­re e con­clu­der­si nel modo più tra­gi­co. Ri­trat­to di ampio re­spi­ro e privo di stoc­ca­te ve­le­no­se: qui Gaber è com­mos­so e de­li­ca­tis­si­mo, e non usa mai la mano pe­san­te.

Da ascol­ta­re sono anche la di­ver­ti­ta “Il Cor­rot­to”, che è sia scu­lac­cia­ta a certi fa­ci­li mo­ra­li­smi che tetra raf­fi­gu­ra­zio­ne di un mondo scar­ni­fi­ca­to ove tutto è merce, ed ov­via­men­te anche il sesso; così come la fi­lo­so­fi­ca “I mo­stri che ab­bia­mo den­tro”, ri­fles­sio­ne au­ste­ra sul­l'e­ter­no dua­li­smo del­l'a­ni­mo umano ricca di spun­ti che po­treb­be­ro va­lo­riz­za­re, quasi da soli, la car­rie­ra di tanti pre­sun­ti can­tau­to­ri di oggi e di ieri.

Ho vo­lu­ta­men­te la­scia­to un po' di spa­zio per la ce­le­bre ti­tle-track, che rap­pre­sen­ta la de­fi­ni­ti­va di­chia­ra­zio­ne d'in­di­pen­den­za senza li­mi­ti e com­pro­mes­si del Sig. G. (“Mi scusi Pre­si­den­te, se ar­ri­vo al­l'im­pu­den­za, di dire che non sento al­cu­na ap­par­te­nen­za”), inno alla li­ber­tà ed al va­lo­re della vita in quan­to tale (così come “Se ci fosse un uomo”), senza stec­cha­ti, bar­rie­re, inni e ban­die­re: sem­pli­ce­men­te, l'uo­mo al cen­tro di tutto.

Non è un inno an­ti-ita­lia­no (anche per­ché oggi una si­mi­le af­fer­ma­zio­ne evoca su­bi­to sgra­de­vo­li ca­mi­cie verdi): anzi, pren­de ac­co­ra­ta­men­te le di­fe­se della cul­tu­ra e della sto­ria del bel­pae­se, quan­do serve per fron­teg­gia­re luo­ghi co­mu­ni be­ce­ri e raz­zi­smo in­ver­ti­to (“Mi scusi Pre­si­den­te ma forse noi ita­lia­ni per gli altri siamo so­lo­spa­ghet­ti e man­do­li­ni. Al­lo­ra qui mi in­caz­zo son fiero e me ne vanto, gli sbat­to sulla fac­cia cos'è il Ri­na­sci­men­to”). Ma sa leg­ge­re fra le righe la re­to­ri­ca scial­ba e vuota che cir­con­da le ce­le­bra­zio­ni del­l'in­no e del na­zio­na­li­smo più in­sul­so.

La mu­si­ca è ovun­que un ele­gan­te, di­scre­to tap­pe­to di archi (e spo­ra­di­ca­men­te fiati) che evi­den­zia e va­lo­riz­za le pa­ro­le di Gior­gio. Giu­sto la ti­tle-track è più mo­vi­men­ta, una mar­cia spas­so­sa e ricca di co­lo­ri e sfu­ma­tu­re, pic­co­la gemma di ritmi ed in­ca­stri in­ge­gno­si.

Gli ar­ran­gia­men­ti sono in ogni caso pun­tua­li, mi­su­ra­ti, pu­li­ti: e la forza del disco, così come in ogni opera d'au­to­re che si ri­spet­ti, sta pro­prio nella fu­sio­ne equi­li­bra­ta fra la sua in­ten­si­tà li­ri­ca ed il pae­sag­gio ove pa­ro­le e con­cet­ti pren­do­no forma.

In pochi hanno sa­pu­to co­niu­ga­re un ibri­do pa­ra­go­na­bi­le a quel­lo del Sig. G: ed al­lo­ra che il no­stro “anar­chi­co” possa in­ven­ta­re ed emo­zia­re anche da lassù, che le sue pa­ro­le siano una boc­ca­ta d'a­ria fre­sca per tutti quel­li che stan­no ri­po­san­do ac­can­to a lui.
Vedi quello che intendevo io? Sono un diversamente acculturato,Very Happy  quello che hai scritto nella mia testa ha trovato una sintonia incredibile, come se fossero pensieri miei, ma non sarei mai riuscito ad esprimere tutto ciò.
Grazie per i tuoi contributi inchino inchino inchino inchino inchino inchino

Grazie a te..... dopo un decennio passato vicino  a chi comunicava per lavoro, qualcosa è arrivato anche a me.... nulla di più. Credimi.

La cosa vera è quella detta da ing.korg: esercitare la propria curiosità, scegliendo  i campi di maggior interesse. E via via gli altri campi ............................  
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MessaggioTitolo: Re: Musiche del nostro esercito   Musiche del nostro esercito - Pagina 78 Icon_minitimeMer 12 Nov 2014 - 13:01

Ora Ciccio
permettimi visto che è un piacere immenso leggere quello che scrivi ti vorrei dare un imput....

Canzone cantata da Branduardi, per un film di Luigi Magni sulla vita di San Filippo Neri,

Vai cercando qua, vai cercando là,
ma quando la morte ti coglierà
che ti resterà delle tue voglie?
Vanità di vanità.

Se felice sei dei pensieri tuoi,
godendo solo d'argento e d'oro,
alla fine che ti resterà?
Vanità di vanità.

Vai cercando qua, vai cercando là,
seguendo sempre felicità,
sano, allegro e senza affanni...
Vanità di vanità.

Se ora guardi allo specchio il tuo volto sereno
non immagini certo quel che un giorno sarà della tua vanità.

Tutto vanità, solo vanità,
vivete con gioia e semplicità,
state buoni se potete...
tutto il resto è vanità.

Tutto vanità, solo vanità,
lodate il Signore con umiltà,
a lui date tutto l'amore,
nulla più vi mancherà.
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MessaggioTitolo: Re: Musiche del nostro esercito   Musiche del nostro esercito - Pagina 78 Icon_minitimeMer 12 Nov 2014 - 19:19

Woods Sad Sad Sad Sad Sad Sad Sad Sad Sad Sad Sad Sad Sad Sad Sad Sad Sad Sad

Mi era sfuggito...... ora leggo con l'attenzione che merita.

Ho ricercato il thread proprio ora, e scoperto il tuo post,  perchè sono stato fulminato da questa canzone di Celine Dionne, cantata a radio tre poca fa.

Come per le "tre donne eccellenti"


............e chiamala canzone


https://www.youtube.com/watch?v=gmB7OTcRC-Q


Lettre de George Sand à Alfred de Musset


Lettere d'amore: "tanto abbiamo amato e tanto, per questo, ci sarà perdonato".


http://chronica-libri.blogspot.it/2011/07/lettere-damore-tanto-abbiamo-amato-e.html Giulio Gasperini
ROMA – George Sand  (scrittrice e drammaturga francese 1804 - 1876 ) fu donna che si chiamò come un uomo; fumò come un uomo; indossò pantaloni come un uomo.

George Sand (nome vero: Amantine Aurore Lucile Dupin) di uomini, ne amò tanti; d’un amore che fu passione, estrema devozione, dedizione assoluta (“non c’è che l’amore che al mondo abbia qualche significato”)
.

George Sand fu donna che visse ogni singolo minuto dei suoi amori spesso contrastati e travagliati, ma sempre condivisi. Suo amante fu Chopin; suo amante fu Alfred de Musset, col quale intessé anche un rapporto epistolare delizioso e profondo, tradotto in italiano da Archinto, nel 1999. Le loro “Lettere d’amore” ci fanno penetrare, con grazia e discrezione, in un inverso complesso ma avvolgente, fatto di dolci atteggiamenti, furiose passioni e grande stima reciproca; quando ancora i rapporti non diventavano svogliati, e i sentimenti (le promesse!) eran più duraturi d’un sms o d’un commento su facebook.

Al di là dei meriti letterari della Sand, che scrisse un centinaio di opere in poco meno di cinquant’anni, rimane indubbio che, circoscritte all’amore (ma anche, a esser sinceri, alla politica), le sue posizioni si palesano d’una modernità disarmane, perché analizzate tramite una coscienza e un punto di vista debitamente calibrati non tanto sulla società e le sue tirannie, ma sostanzialmente sull’interiorità e sull’unico soggetto realmente interessato: il sé stesso, di chiunque sia.

E l’amore è la spinta propulsiva alla salvezza; tanto da credere, la Sand, profondamente, nella promessa che Gesù concesse alla Maddalena: tanto ha amato e tanto, per questo, le sarà perdonato.

Il vero manifesto della teoria amorosa della Sand è la lettera datata “Venezia, 12 maggio 1834”, quella stessa che Céline Dion, nell’album D’Elles del 2007, ha cantato, plasmando, per la Sand, una voce che, probabilmente, supera qualsiasi tipo di aspettativa.


La lettera riguarda l’eredità dell’amore che, quando finisce, non può lasciare soltanto odio o rancore o, ancor peggio, indifferenza, perché comunque i due amanti hanno condiviso un frammento di vita, son stati compartecipi di esperienze comuni e hanno tessuto un universo che, in nessun altro luogo né spazio, potrà mai tornare uguale.

La Sand sa che il ricordo dei passati amori si solidifica nella coscienza d’un amante, si cristallizza in una sorta di memoria sentimentale, ma non per questo l’amore ne deve risentire, né esserne flagellato o straziato: "Ama, dunque, mio Alfred, ama per davvero. Ama una donna giovane, bella, e che ancora non abbia amato, né ancora sofferto. Prenditi cura di lei, non farla soffrire. Il cuore di una donna, quando non è di ghiaccio o di pietra, è così delicato!".
Perché l’importante, per la Sand, è comunque la consapevolezza d’aver amato. Al di là di tutto, oltre a tutto, nonostante tutto: "Un giorno tu possa guardarti alle spalle e dire come me, spesso ho sofferto, a volte ho sbagliato, ma ho amato".

Celine Dion -
Lettre De George Sand A Alfred De Musset
[Letter from George Sand to Alfred de Musset]

si alternano francese e inglese

Venise, 12 mai 1834  [Venice, May 12th, 1834]

Non, mon enfant cheri
Ces trois lettres ne sont pas
Le dernier serment de main de l'amant qui te quitte
C'est l'embrassement du frere qui te reste
Ce sentiment la est trop beau, trop pur et trop doux
Pour que j'eprouve jamais le besoin d'en finir avec lui
Que mon souvenir n'empoisonne aucune des jouissances de ta vie
Mais ne laisse pas ces jouissances detruire et mepriser mon souvenir
Sois heureux, sois aime, comment ne le serais-tu pas?
Mais garde-moi dans un petit coin secret de ton coeur
Et descends-y dans tes jours de tristesse
Pour y trouver une consolation ou un encouragement

[No, my cherished child
Those three letters are not
The last promise from the hand of the lover that leaves you
It's the embrasement of the brother that remains you
This feeling is too beautiful, too pure and too soft
For me to ever feel the need to finish with it
That my memory not poison any of your life pleasures
But don't let those pleasures destroy or despise my memory
Be happy, be loved, how could you not be?
But keep me in a small corner of your heart
And go down there in your days of sorrow
To find some sympathy and encouragement]

Aime aurant qu'on maltraite
Aime pour tout de bon
Aime une femme, jeune et belle
Et qui n'ait pas encore aime

[Love as much as we maltreat
Love everything for good
Love a woman, young and pretty
And who has never loved]

Menage-la, et ne la fait pas souffrir
Le coeur d'une femme est une chose si delicate

[Menage her, and don't make her suffer
A woman's heart is such a delicate thing]

Quand ce n'est pas un glacon ou une pierre
Je crois qu'il n'y a guere de milieu
Et il n'y en pas non plus
Dans ta maniere d'aimer

[When it's not a ice cube or a stone
I believe there is no middle
And it doesn't have any either
In your way to love]

Ton ame est faite pour aimer ardamment
Ou pour se desecher tout a fait
Tu l'as dit cent fois
Et tu as eu beau t'en dedire

[Your soul is made to love intensely
Or to dry out totally
You said it a hundred times
And although you tried to remove your words]

Rien, rien n'a efface cette sentence-la
Il n'y a au monde que l'amour
Qui soit quelquechose
Peut-etre m'as-tu aime avec haine
Pour aimer une autre avec abandon
Peut-etre celle qui viendra
T'aimera-t-elle moins que moi
Et peut-etre sera-t-elle plus heureuse
Et plus aimee

[Nothing, nothing has erased that sentence
In all the world there is only love
That is something
Maybe have you loved me with hate
To love another one with surrender
Maybe the one who will be coming
Will love you more than I
And maybe will she be happier
And more loved]

Peut-etre ton dernier amour
Sera-t-il le plus romanesque et le plus jeune
Mais ton coeur, mais ton bon coeur, ne le tue pas je t'en prie
Qu'il se mette tout entier dans tous les amours de ta vie
Afin qu'un jour tu puisse regarder en arriere et dire comme moi
"J'ai souffert souvent, je me suis trompe quelques fois... mais j'ai aime"

[Maybe your last love
Will be your most romantic and the youngest
But your heart, your good heart, don't kill it I beg you
That it puts itself totally in all the loves of your life
So that one day you can look back and say as I do:
"I have suffered often, I was wrong sometimes... but I have loved"]
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